Social card privata coi soldi pubblici: chi la vuole bussi all’ente “amico”

ROMA – Il Governo pensa ai poveri, anzi ci ripensa. Torna la social card ma il governo non la dà ai poveri, la consegna agli enti privati di beneficienza. Che vadano poi i poveri a bussare alla porta degli enti di carità. Sono cinquanta milioni di euro destinati ai poveri che però, prima di arrivare nelle loro tasche, dovranno transitare e sostare nella “stazione” di organizzazioni private. Queste decideranno poi a chi e come distribuire. Diamo per scontata la “buona intenzione”: il governo, scottato dalla precedente esperienza, quella della social card che non arrivava a nessuno o quasi, cerca altra strada. Ma la strada che passa dalle organizzazioni private di beneficienza e carità è un percorso assai singolare e accidentato di dubbi, dubbi di forma e di sostanza. Davvero i privati saranno “neutrali” nel distribuire i fondi? Davvero è corretto costringere il cittadino povero e bisognoso ad “affiliarsi” ad una una organizzazione per ricevere il pubblico aiuto?

Attraverso il milleproroghe il governo stanzia 50 milioni di euro per la nuova versione della social card. Peccato che questi soldi non andranno direttamente, come era stato in passato e come sembrava logico, alle persone che ne avevano diritto e bisogno, ma a dei non meglio specificati “enti caritativi”, cioè dei privati, e saranno poi questi enti a redistribuire i fondi ai cittadini, anche se non è chiaro come e su quali criteri.

Nel mare magnum legislativo che è il decreto milleproroghe c’è spazio anche per la social card, la carta pensata per gli acquisti alimentari e per il pagamento delle bollette destinata alla fascia della popolazione più bisognosa. La carta tanto cara al ministro Tremonti e sbandierata come grande operazione di sostegno alle famiglie in difficoltà torna però con una novità sostanziale. Il milleproroghe stabilisce infatti che gli aiuti economici non andranno direttamente ai cittadini ma transiteranno attraverso degli enti caritativi che si occuperanno poi di redistribuire questi fondi. Stabilisce il “decretone” che la novità avrà una fase sperimentale, affidata appunto agli enti caritativi operanti nei comuni con più di 250.000 abitanti, e che la sperimentazione avrà durata di 12 mesi e potrà contare su risorse pari a 50 milioni di euro.

La social card era nata come misura per tamponare gli effetti della crisi economica del 2009 ma, nonostante le buone intenzioni che l’avevano partorita, e probabilmente a causa dei troppi paletti imposti nella determinazione dei soggetti aventi diritto, il risultato fu che si spese ancora meno di quanto previsto, raggiungendo una platea di beneficiari inferiore a un terzo di quanto inizialmente preventivato. Un caso più unico che raro. Sarebbe bastato abolire i criteri anagrafici permettendo anche a chi ha meno di 65 anni ed è povero di fruire della carta per allargare la platea di beneficiari, rendendo questa misura di un qualche significato nel contribuire a ridurre, pur marginalmente, la povertà. Invece il governo decise di seguire una strada tortuosa, preludio di sprechi e nuove iniquità.

Forse per porre rimedio a queste storture si è pensato di introdurre delle modifiche nella riedizione della carta, idea piena di buon senso a rigor di logica, se non fosse che le modifiche peggiorano e rendono ancor più tortuoso l’accesso alla carta stessa. L’ articolo 2 del milleproroghe prevede che nei comuni con più di 250.000 abitanti venga “avviata una sperimentazione in favore degli enti caritativi” della durata di 12 mesi. La relazione tecnica allegata al provvedimento precisa meglio cosa si intende fare: “La norma identifica come beneficiario non già il destinatario ultimo della carta, ma l’ associazione che si impegna a distribuirla”. E perché mai verrebbe da chiedersi, forse una ratio esiste, anche se non è una ratio “sociale”.

In altre parole lo Stato assegnerà la carta acquisti a imprecisati “enti caritativi”, con relativi fondi, e saranno questi ultimi a dover decidere a chi dare la social card e a chi no, sottraendo evidentemente questo compito ai servizi assistenza dei Comuni. Il “decretone” non entra nel dettaglio ed è quindi naturale che questo tipo di scelta faccia nascere molti interrogativi. In primis il milleproroghe si guarda bene dall’indicare quali saranno gli enti caritativi che dovranno ricevere i fondi e poi redistribuirli, e non potrebbe fare altrimenti. Impossibile pensare che un decreto possa elencare uno ad uno centinaia se non migliaia di enti, ma il testo di legge non indica nemmeno chi deciderà quali enti caritativi saranno degni di ricevere e distribuire le carte acquisti e quali no. Nel vuoto delle nostre politiche di assistenza sono spesso gli enti religiosi o le associazioni culturalmente se non politicamente caratterizzate ad assistere i più poveri. Finché gestiscono risorse proprie che, in principio, dovrebbero integrare le prestazioni pubbliche, non c’ è nulla di male, anzi. Ma perché obbligare un immigrato di religione musulmana a doversi rivolgere a un ente caritatevole cattolico per ricevere l’ assistenza cui ha diritto secondo una legge dello Stato? Perché vincolare una persona culturalmente o ideologicamente poco affine a un partito politico a dover dipendere dai trasferimenti di una organizzazione collaterale di quel partito? Ecco saltar fuori una possibile ratio di una norma altrimenti incomprensibile. Più che di assistenza sociale sembra trattarsi di promozione e premiazione di interessi particolari, politici o religiosi che siano.

Il milleproroghe dimentica poi di indicare quali saranno i criteri con cui questi enti caritatevoli procederanno alla distribuzione delle social card. I servizi di assistenza dei Comuni dispongono in teoria di mezzi ed informazioni molto più accurate per valutare la presenza di condizioni di bisogno, a partire dalle dichiarazioni Isee sino ad arrivare ai registri automobilistici. Gli enti caritatevoli, essendo privati, di certo non posso avere accesso a tutta una serie di banche dati che sono pubbliche e che servono anche a conoscere il reale stato economico dei cittadini. E’ piena poi la cronaca, recente e non, di enti caritativi che tali sono stati non nei confronti di chi ne aveva bisogno ma nei confronti di chi non ne aveva bisogno ma che aveva un altro tipo di credenziali. Basti pensare alle pie assegnazioni di dimore a canoni stracciati nel pieno centro di Milano, ultimo episodio in fatto di tempo. Appaltando la scelta dei beneficiari a privati è evidente che il rischio che i soldi non vadano ai poveri è più forte che lasciando alle amministrazioni pubbliche questa funzione. Non ci vuole né un critico né un matematico per individuare questo rischio, basta un pizzico di buon senso. E’ sicuramente altrettanto vero che questi enti privati potrebbero rivelarsi diligentissimi e redistribuire i fondi in maniera ineccepibile, ma perché correre il rischio che questo non avvenga?

Va poi considerato il fatto che questi enti avranno dei costi, dovranno sostenere delle spese per individuare i soggetti a cui destinare la social card, e sulla carta non sono previsti stanziamenti aggiuntivi per la gestione della “sperimentazione”. La relazione tecnica stima in circa 100.000 le nuove carte da erogare, ed essendo queste del valore di 40 euro al mese ciascuna, la loro assegnazione comporterebbe una spesa di 48 milioni di euro a fronte dei 50 stanziati nel milleproroghe. Saranno quei due milioni di scarto a coprire questi costi? E se sì, perché lo Stato, cioè noi, deve sborsare due milioni di euro per far fare a degli enti caritativi quello che può benissimo fare per conto suo, probabilmente anche in modo migliore? Se non saranno quei due milioni di differenza a coprire i costi ci saranno altre forme di compensazione, magari ancor meno trasparenti?

Infine il milleproroghe parla di “sperimentazione” ma non fa alcun riferimento ad una valutazione di questo “esperimento”. Non è contemplata, ad esempio, la raccolta di dati nelle città coinvolte dal provvedimento e nelle città in cui non cambia nulla rispetto alla normativa vigente. Dal confronto dei dati si potrebbe capire se il coinvolgimento del terzo settore ha portato a migliorare la capacità della carta acquisti di raggiungere i più poveri o meno. E’ una follia logica fare un esperimento senza interessarsi dei risultati, a meno che l’importante non siano i risultati ma l’esperimento stesso. La “morale” della storia della nuova social card è che lo Stato non si fida di se stesso e della sua capacità di spendere in maniera equa ed efficiente. Quindi consegna i soldi nelle mani di privati cui non chiede nè come spenderanno e neanche con quali criteri e nemmeno di relazionare sulla spesa. E i poveri? Che cerchino l’indirizzo giusto e soprattutto, se vogliono la social card, si facciano ben volere dal benefattore. Altrimenti…

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