Tasse, Trump fa gli Usa paradiso fiscale delle aziende. E sgambetta l’Europa

di Riccardo Galli
Pubblicato il 4 Dicembre 2017 - 13:02 OLTRE 6 MESI FA
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Tasse, Trump fa gli Usa paradiso fiscale delle aziende. E sgambetta l’Europa

WASHINGTON – Tasse, Trump fa degli Usa paradiso fiscale delle aziende. E sgambetta l’Europa.

Giù le tasse per le imprese e, dal 2019, gli Usa diventeranno uno dei Paesi del mondo con la legislazione fiscale più favorevole per le aziende. E’ la conseguenza più macroscopica, ma meno sottolineata, della riforma fiscale voluta da Donald Trump e varata due giorni fa dal Senato a stelle e strisce. Una riforma che avrà un impatto minimo sui singoli contribuenti americani (quelli che qui fiscalmente chiamiamo persone fisiche, insomma non cala l’Irpef americana) ma molto forte sulle tasse per le aziende e i loro profitti.

Queste la riforma Trump le taglia eccome, portandole dal 35% al 20% per cento. E quindisugli equilibri dell’economia mondiale perché così facendo gli Usa portano la tassazione sulle imprese sotto la media mondiale che è del 22 per cento e soprattutto ben sotto la media europea della tassazione sulle imprese che è del 25 per cento.

Quindise la concorrenza Usa sul fronte tributi diverrà più accanita, i concorrenti che rischiano di rimetterci siamo noi: l’Europa. Il sì definitivo alla riforma fiscale, che ora dovrà essere armonizzata con quella votata dal Congresso, è arrivato dal Senato Usa con 51 voti a favore e 49 contrari.

Una partita, l’ennesima per quel che riguarda le riforme di Trump alla prova dell’Aula, a lungo dall’esito incerto e arrivata ‘di misura’, ma che rappresenta la prima vera e grande vittoria della presidenza del tycoon. Una vittoria che Trump ha aspettato un anno, periodo in cui da Senato e Congresso sono arrivate solo sconfitte, come quelle sull’Obamacare, e una vittoria che vale molto più del muro lungo il confine col Messico o del bando degli immigrati musulmani. Perché, se come dicono i repubblicani il taglio alle tasse favorirà crescita, occupazione, e aumento delle retribuzioni, alle prossime elezioni il capo della Casa Bianca e il suo partito potranno ottenere anche più voti del 2016. Se invece, come sostengono i democratici, gonfierà il debito, cancellerà l’assistenza sanitaria per 13 milioni di persone, favorirà i ricchi a scapito della classe media e bassa e non rilancerà l’economia, diventerà l’errore che potrebbe costare al Gop il potere e a Trump la presidenza.

Questo è però l’aspetto più squisitamente politico di una riforma che è invece tutta economica. Trump è arrivato alla Casa Bianca con i voti dalla classe media e bassa, esasperata dalle perdite subite a causa della globalizzazione e dei nuovi meccanismi dell’economia moderna. E la sua riforma parte in un certo senso da questo presupposto e punta, nei fatti, a rendere gli Stati Uniti più attraenti per le aziende di altri luoghi del mondo. Europa in testa. Applicando quell’America First della campagna elettorale all’economia. Il punto centrale della riforma che si applicherà dal 2019 è infatti la riduzione dell’aliquota per le aziende dal 35 al 20%, che è permanente a differenza delle riduzioni e degli sgravi per le persone fisiche che saranno minimi e a scadenza.

Questo taglio, secondo la teoria della ‘trickle-down economics’ che Arthur Laffer aveva elaborato per Reagan, sommata a quella sul rimpatrio dei capitali parcheggiati all’estero, dovrebbe favorire nuovi investimenti da parte delle compagnie favorendo così crescita e aumento dell’occupazione. Questo perché con la nuova aliquota al 20% gli Usa si posizioneranno sotto a quella che è la media dell’imposizione fiscale per le imprese a livello mondiale, che è al 22%, e ben al di sotto di quella che è la medie Ue, al 25%. Novità che potrebbe allettare molte aziende a spostare sedi, e quindi investimenti e assunzioni, sul suolo Usa per avere un conto-tasse più leggero. Se a questo sommiamo la già indiscutibilmente maggiore vivacità dell’economia Usa rispetto a quella europea noi abitanti del Vecchio Continente avremmo forse di che preoccuparci. Contraltare di questa riforma sono, neanche a dirlo, i costi.

Il taglio sulle tasse da 1400 miliardi di dollari (perché di tanto si tratta) gonfierà il debito pubblico di 516 miliardi di dollari secondo la stima più ottimistica della Tax Foundation, e di 1,39 trilioni secondo quella più pessimistica di Penn Wharton. Un rovescio della medaglia particolarmente rischioso per i repubblicani che da sempre sono il partito della responsabilità fiscale e che accusavano i democratici di aver fatto saltare i conti pubblici. E gli americani, quei cittadini per cui il taglio delle tasse sarebbe stato fatto?

Chiaramente se l’economia Usa ne beneficerà ne guadagneranno anche loro in termini di occupazione e di uno Stato più ricco, anche se su come la maggior ricchezza verrebbe redistribuita si potrebbe aprire una riflessione, ma oltre a questo avranno solo le briciole. Secondo i dati forniti dai repubblicani ben il 70% degli americani avranno benefici dalla riforma, peccato che scadranno dopo 8 anni. Mentre la cancellazione dell’obbligo di acquistare una polizza sanitaria sancito dall’Obamacare farà mancare i fondi per sostenere la riforma sanitaria con 13 milioni di cittadini che rischiano di perdere la copertura assicurativa.