Telecom da Sip a Telefonica. Alessandro Penati: Colaninno, Tronchetti disastro

La strada percorsa da Telecom per finire in bocca a una azienda spagnola, un percorso durato 15 anni, è stata rintracciata da Alessandro Penati su Repubblica. Il titolo dà la chiave:

“Un gigante portato al collasso dai vizi del capitalismo tricolore. Fallimentari le gestioni di Colaninno, Tronchetti e banche”.

Nelle ultime parole dell’articolo c’è un giudizio che non riguarda solo Telecom, ma si estende alla intera povera Italia. Telecom è

“un’azienda priva di prospettive, ancorata a un paese senza crescita, incapace di stare al passo con i rapidi e repentini cambiamenti del settore. Definire Telecom un morto che cammina, ridotto in questo stato da una vicenda che è lo specchio delle storture del Paese, sembra quasi un eufemismo”.

La storia di Telecom affonda le radici nella fine dell’800, con un’altra funzione, la produzione di elettricità. Si chiamava Sip, che voleva dire Società idroelettrica piemontese. Compì l’evoluzione telefonica dopo la nazionalizzazione della energia elettrica, anni ’60, prezzo pagato per la nascita del centro sinistra con l’ingresso dei socialisti nel Governo accanto alla Dc. Lo Stato svuotò la Sip delle cascate e la riempì di centralini.

La storia recente, con la trasformazione in Telecom, ha inizio, scrive Alessandro Penati, nel 1997: fu la madre di tutte le privatizzazioni. Al governo c’era Romano Prodi, anche se il progetto fu messo in moto ben prima. Peccato originale:

Telecom da Sip a Telefonica. Alessandro Penati: Colaninno, Tronchetti disastrosi
Alessandro Penati: disastro Telecom

la privatizzazione di Telecom fu fatta

“solo per far cassa e per l’ingresso nell’euro”.

Come conseguenza, invece di fare precedere la privatizzazione dalla apertura del mercato alla concorrenza, Telecom fu

“collocata come un monopolio integrato”

cosa che consentì allo Stato di

“incassare 12 miliardi di euro per il 42%, più di quanto oggi valga l’intera società”.

Inoltre, ricorda Alessandro Penati, Stato pilotò il controllo in mani amiche, con

“l’approccio del nocciolo duro, con Agnelli primo azionista (e un investimento risibile, come d’abitudine) e Guido Rossi presidente. Per facilitargli il controllo, non si convertono le azioni di risparmio (senza diritto di voto), sopravvissute fino a oggi. Cambiano i vertici: Gian Mario Rossignolo e poi Franco Bernabè (l’attuale presidente, non suo figlio). Ma l’interesse dei nuovi azionisti privati è solo di incassare il dividendo della rendita monopolistica. E l’azienda rimane un pachiderma sonnacchioso e pieno di soldi”.

Roberto Colaninno (che aveva trattenuto la Olivetti sull’orlo del precipizio) e i suoi soci padani furono “rapidi” a sfruttare l’apertura dell’Italia al mercato dei capitali internazionali determinata dall’euro e lanciarono l’Opa (offerta pubbica di acquisto) su Telecom. Fu però, per Alessndro Penati,

“una cocente delusione: invece di fondere holding e società operative create per scalare Telecom, concentrarsi sulla gestione industriale e ripagare l’enorme debito contratto, i capitani coraggiosi si comportano da vecchi capitalisti nostrani, perpetuando la lunga catena societaria creata con l’Opa per valorizzare il premio di controllo nella holding Bell (lussemburghese, naturalmente). La preoccupazione resta il controllo, con il minimo dei capitali e il massimo del debito”.

Colaninno e soci furono però spiazzati dalla fine della bolla internet e

“con essa delle valutazioni insensate che il mercato attribuiva alle telecomunicazioni. Per Colaninno & Co. è un brusco risveglio: il valore di Telecom crolla, ma i debiti rimangono; e i creditori bussano alla porta. In Italia, però, c’è sempre qualcuno pronto a strapagare il controllo (coi soldi di banche amiche) pur di soddisfare voglie di impero”.

Siamo al 2001. Si presenta Marco Tronchetti Provera (Pirelli) che

“strapaga il controllo di Telecom; naturalmente il premio va alla Bell (quasi tax free), non al mercato come da italica abitudine. E perpetua gli errori di Colaninno & Co., esercitando il controllo con una catena societaria ancora più lunga (Olimpia al posto di Bell, più Pirelli, Camfin eccetera), e ancora più debito, ovviamente con il sostegno di Intesa e Unicredit, socie in Olimpia”.

Poi, sentenzia Alessandro Penati, Tronchetti Provera

“infila una serie incredibile di errori. Per far fronte ai debiti vende tutte le attività che la Telecom di Colaninno e soci aveva acquistato all’estero, in mercati a forte crescita (unica decisione giusta); salvo poi accumularne di più per fondere Tim con Telecom, puntando prevalentemente sulla telefonia mobile in Italia: un mercato in via di saturazione, a bassa crescita e sempre più concorrenziale. E non investe nella banda larga, perdendo il treno di Internet. Così, nel 2006, Tronchetti si trova nella stessa situazione di Colaninno & Co. nel 2001: il valore di Telecom in calo irreversibile; troppo debito; e i creditori alla porta. Ma questa volta non c’è un altro aspirante imperatore in Italia, così Tronchetti cerca di vendere agli americani di AT&T o al messicano Slim. Orrore!”.

Siamo arrivati al 2006 e Romano Prodi è di nuovo al Governo

“Il sempreverde animo dirigista [diProdi] impone la salvaguardia di una azienda “strategica per il paese”. Se però il mercato dei capitali non funziona (meglio, non lo si crea) e l’Europa impedisce allo Stato di intervenire, ci si inventa “l’operazione di sistema”. Al comando torna Guido Rossi (quello del 1997), con il compito far uscire indenne Tronchetti e creare un patto per mantenere il controllo in mani italiane. […] Chi allora meglio di Banca Intesa, autoproclamatasi banca di sistema, insieme con il salotto buono di Mediobanca e Generali, per un’operazione di sistema gradita al Governo? Con la spagnola Telefonica, comprano il controllo da Olimpia, rinominata Telco (senza che il mercato veda un euro), facendo uscire Tronchetti prima che l’avventura Telecom lo porti al dissesto. E finanziano l’operazione a debito. Nulla cambia nella struttura finanziaria (troppo debito) e proprietaria (controllo in una holding fuori mercato).

“Telefonica è straniera, ma non conta: la Spagna ha un capitalismo come il nostro e ci si intende. E poi ha una quota di minoranza. Ma in questo modo le si concede di fatto un diritto di prelazione sul controllo futuro, magari a prezzo di saldo”.

La cosa, che Alessandro Penati quando ha scritto il suo articolo aveva previsto, si è poi verificata e Intesa, Mediobanca e Generali,

“non potendo più permettersi le perdite che le operazioni di sistema inevitabilmente generano”

hanno venduto a Telefonica

“la loro quota in Telco (naturalmente fuori mercato); a una frazione di quanto avrebbero incassato cinque anni fa. Come con Air France in Alitalia, o Edf in Edison: le operazioni di sistema non mi sembrano capolavori di astuzia”.

Nel 2007, ricorda Alessandro Penati, a capo di Telecom torna Franco Bernabè (quello del 1998):

“Il debito è rimasto quello di 13 anni prima, ma i ricavi dalla telefonia in Italia, dove l’azienda è concentrata, sono in declino irreversibile e non generano cassa bastante a rimborsarlo. Ci vorrebbe un forte aumento di capitale, ma i soci non hanno soldi. Anzi, vogliono uscire. E, in ogni caso, non si saprebbe come remunerarlo adeguatamente. Non si può vendere Tim per consolidare un mercato nazionale troppo frazionato perché evidenzierebbe una perdita colossale derivante dall’abbattimento del valore dell’avviamento a bilancio. Vendere il Brasile, che pure è ai massimi, significherebbe fossilizzarsi in un mercato in declino. Non ci sono i soldi per investire nella rete e ci sarebbero problemi a remunerare gli investimenti anche perché la regolamentazione impone di spartirne la redditività con i concorrenti. Né si può venderla, perché la Cassa depositi sarebbe il solo compratore accettabile per il governo: una sorta di nazionalizzazione antistorica e impraticabile; e Telecom perderebbe l’asset con le migliori prospettive. Fare l’azienda a pezzi e offrirli sul mercato globale al migliore offerente, approfittando dell’attuale ondata di fusioni e acquisizioni nel mondo equivarrebbe, nella lingua italiana, a una bestemmia”.

 

 

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