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Tetto ai big-stipendi: governo vota e si pente. Storia di una sera di demagogia bipartisan

di admin |21 Ottobre 2010 15:57

Il senatore dell'Italia dei Valori Elio Lannutti

Si dice, si vota, ma non si fa, non si può fare. Altrimenti, se si fa davvero, quello di Berlusconi diventa il primo governo “comunista” in Italia. E’ sera al Senato quando governo e maggioranza si distraggono, o meglio si fanno affascinare dall’idea di strizzare l’occhio all’opinione pubblica. Cosa c’è di meglio per far bella figura che tagliare lo stipendio ai ricchi, anzi ai ricchissimi? C’è una proposta, un emendamento del partito di Di Pietro, chiede di fatto di mettere fuori legge lo stipendio di manager e amministratori di società quotate in Borsa. Non sotto controllo, non legati ai risultati, non fermati se derivano da troppo debito speculativo delle rispettive aziende. No, proprio fuori legge a meno che non siano al massimo pari con la retribuzione dei parlamentari. L’Idv propone, maggioranza e governo approvano. Poi si pentono, ecco la storia.

Lo stipendio totale di manager e amministratori delle società quotate in Borsa in Italia non potrà superare quello dei parlamentari, raggiungendo un tetto massimo di 248mila euro lordi all’anno. Vietato anche emettere stock option a favore dei banchieri. Lo decide mercoledì sera l’assemblea del Senato approvando un emendamento dell’opposizione presentato al senatore dell’Italia dei Valori Elio Lannutti che dopo la votazione non sta più nella pelle: «Una decisione storica!» commenta.

Un emendamento approvato dal Governo che però sa tanto di errore per la portata e le conseguenze di tale norma. Il provvedimento mette infatti fuorilegge quasi tutti i vertici delle società quotate. Il loro stipendio medio è vicino al milione di euro l’anno al lordo delle tasse. Praticamente una Borsa italiana illegale. A Palazzo Madama però, fra i senatori di maggioranza, magari un po’ distratti dalla routine, la sorpresa è durata lo spazio di qualche minuto, il tempo di avere esatta cognizione di quale fosse la reale entità dell’emendamento. «E’ stato un errore. Vi porremo rimedio», ha commentato a caldo un imbarazzato ministro delle politiche comunitarie Andrea Ronchi.

Tutto accade nel tardo pomeriggio di mercoledì, durante le votazioni sulla legge comunitaria per il 2010. La seduta volge al termine, sul banco della presidenza è di turno la vicepresidente leghista Rosi Mauro. Sul banco, a nome del governo c’è Ronchi, competente sulla legge. Il relatore di maggioranza, il trentino Giacomo Santini, deve dare parere su tutti gli emendamenti, di maggioranza e opposizione.

E’ il turno della proposta dell’Idv. Santini si espone senza equivoci: «I tempi sono ormai maturi per introdurre un tetto agli stipendi dei manager, quelli che offendono di più l’opinione pubblica, e anche il divieto di stock option. Auspico che il Governo si pronunci in maniera chiara e inappellabile. Ho sentito diversi pareri favorevoli da parte di senatori della maggioranza e poi mi sembra il completamento dell’emendamento del Governo. Mi chiedo solo perchè la legge Comunitaria sia chiamata a legiferare su questo tipo di riforma che meriterebbe un provvedimento tutto suo». Santini sembra sicuro della sua opinione. E poco dopo lo sembrerà pure il Governo il quale, alla richiesta duplice della presidente Mauro sul parere da dare all’emendamento, darà parere favorevole. La notizia rimbalza rapidamente sulle agenzie di stampa.

Cominciano a fioccare i commenti. Marco Vitale parla di una norma «populista e dirigista», il direttore dell’Istituto Bruno Leoni Alberto Mingardi parla di «sovietizzazione senza ritorno dell’economia italiana». Nel frattempo il Governo capisce la portata del sì e fa sapere che già nella giornata di giovedì (giorno dopo “l’emendamento dell’errore”) rimetterà mano in qualche modo ad un testo non ancora votato in via definitiva.

A quel punto sul viso di Lannutti la gioia lascia spazio alla delusione: «Eppure tutti erano in aula, anche Ronchi». Far passare l’accaduto come semplice errore per il Governo non è semplice, al punto che i capigruppo Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri, promettendo l’immediata modifica, quasi difendono il provvedimento: «Il voto ha dato voce al diffuso sentimento popolare di porre un tetto a quei trattamenti economici che rappresentano una effettiva anomalia. Ciò non fa venire meno la consapevolezza di non poter contraddire le regole del mercato. La Camera avrà tempo e modo per garantire questo indispensabile riequilibrio».

Parole talmente caute da far riemergere in alcuni il dubbio di un incidente quasi voluto. «Macché blitz, è stato un bestiale errore frutto della leggerezza con cui gestiscono le votazioni», commenta sarcastico l’ex responsabile economico del Pd Enrico Morando. «Ora voglio vedere cosa si inventano per fare marcia indietro. Perché quella è una norma di legge votata dal Parlamento».

Questa la storia, imbarazzante per governo e maggioranza. E la morale? La morale, imbarazzante per tutti, governo, maggioranza e opposizione, è che quando non si ha coraggio politico non si può avere nè reddito nè giustizia fiscale. I redditi da lavoro in Italia, anche quelli alti e altissimi, anche quelli dei manager sono colpiti da un’aliquota marginale che arriva al 43 per cento del totale. I redditi da dividendo, cioè l’imposta sul capitale, sono tassati di circa il 20 per cento. I redditi da investimento finanziario pagano il 12,5 per cento al fisco. Alzare queste aliquote, avvicinarle a quanto pagano i redditi da lavoro vuol dire colpire moltissime persone e tra queste alcune persone molto potenti. Troppo impegnativo per la politica, somiglierebbe, accompagnata da una revisione delle aliquote Irpef ed Iva ad una riforma fiscale. Più facile fare la faccia feroce verso gli alti stipendi, regalarsi una sera di demagogia bipartisan, salvo risvegliarsi al mattino e ricordarsi che le economie a stipendio pianificato erano quelle sovietiche e, non a caso, non funzionavano.

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