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“Resteremo in Italia” ma aveva già deciso di chiudere Terni

di admin |12 Maggio 2011 23:07

Harald Espenhahn (Lapresse)

ROMA – Harald Espenhahn, un nome che di recente è comparso spesso sui quotidiani, ma che forse non tutti associano ad un’identità e una storia. Questo signore, giudicato colpevole in prima grado di omicidio volontario e condannato a 16 anni e mezzo di reclusione, è l’uomo, il manager che ha apertamente preso in giro Confindustria, è l’uomo che Confindustria ha applaudito per poi pentirsene, in pubblico e molto più in privato. Di professione amministratore delegato della ThyssenKrupp ma anche, a suo modo, politico assai, troppo astuto.

Dopo la sentenza di condanna dello scorso aprile il nome di Espenhahn è tornato agli onori delle cronache per un applauso tributatogli dalla platea di Confindustria riunita a Bergamo. ThyssenKrupp è un associato come gli altri, il suo ad ha chiesto la parola e gli è stata data, e poi il convegno era a porte chiuse, si sono giustificati a viale dell’Astronomia. Fatto sta che l’ad di Thyssen, condannato per l’incidente costato la vita a sette operai, con un discorso in cui sottolineava la volontà della sua azienda di rimanere e investire persino in Italia, aveva strappato un applauso a scena aperta. Applauso costato non pochi imbarazzi a Confindustria che ha costretto la Marcegaglia ha spedire il direttore generale Giampaolo Galli a chiedere scusa ai familiari e all’opinione pubblica per un applauso «inopportuno e sbagliato».

Applauso che il manager tedesco si era guadagnato un po’ ad arte con frasi ad effetto: ha affermato che i suoi figli parlano più il ternano che la madrelingua, che investire in Italia è giusto e importante e che la multinazionale che lui guida voleva continuare ad essere presente in Italia. La platea, ammaliata, applaudiva. E Espenhahn dal canto suo sorrideva? Questo non è dato saperlo, ma probabilmente sì, conscio di star deliberatamente prendendo in giro tutti coloro che lo stavano ascoltando e Confindustria. Mentre raccontava di voler restare e investire in Italia aveva già in tasca, da ben due giorni, la lettera con cui i vertici della multinazionale tedesca comunicavano la decisione di scorporare in una società separata l’intero settore dell’acciaio inossidabile, compresa la fabbrica di Terni. Una mossa che potrebbe preludere alla vendita (o alla chiusura, si teme) di Terni. Una doppia beffa per Confindustria, crocifissa sui giornali per l’imbarazzante pronunciamento della platea. Un applauso che ha di fatto cancellato dalle cronache le proposte sull’economia lanciate da Bergamo, e, per di più, un applauso tributato ad un oratore che stava di fatto ingannando la platea.

Confindustria proprio non l’ha presa bene definendo «un gioco sporco di chi ha la coscienza sporca» l’accaduto. L’associazione di viale dell’Astronomia non ha gradito di essere stata usata e presa in giro ma, oltre all’orgoglio ferito  ci sono anche altre conseguenze, ben più gravi, alla scelta della multinazionale dell’acciaio di “allontanarsi” dall’Italia. La condanna di Espenhahn e degli altri dirigenti Thyssen aveva da una parte fatto gioire familiari delle vittime, sindacati e mondo politico che speravano che la sentenza potesse essere un passo avanti nella lotta alle morti bianche. Ma molti temevano di contro che avrebbe avuto come conseguenza l’abbandono del nostro paese da parte della multinazionale “offesa” dalla condanna del suo massimo dirigente, come si intuiva anche dalle parole pronunciate all’indomani della sentenza dal sindaco di Terni Di Girolamo: «Questa volta la giustizia sembra sia stata ingiusta e abbia calcato troppo la mano». Disse di non capire la decisione dei giudici torinesi e che la sentenza «è punitiva nei confronti dell’azienda e dei lavoratori che – secondo lui – ora si troveranno in difficoltà».

Quelle parole ora stanno divenendo realtà, i 2800 lavoratori impiegati nelle acciaierie di Terni temono per il loro lavoro ma, un piccolo miracolo, con le sue troppo “corte” bugie, Espenhahn l’ha fatto mettendo d’accordo prima destra e sinistra all’indomani della sentenza di Torino e, ora, mettendo d’accordo sindacati e Confindustria.

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