Tim-Telecom, lo sbarco degli americani. Vincenzo Vita amaramente constata che si compie l’ultimo atto della privatizzazione dell’azienda ex monopolista mescola i rituali del dramma con quelli della fuga con ignominia.
Si tratta del perfezionamento della divisione (il cosiddetto spezzatino) della struttura aziendale in due: la rete di trasmissione e la società dei servizi.
Presso il celebrato studio notarile milanese Marchetti, scrive Vincenzo Vita sul Manifesto, si è consumata la (s)vendita del gioiello di famiglia alla holding partecipata dal fondo statunitense KKR, da Canada Pension Plan Investment Board, da Abu Dhabi Authority (ADIA), da una piccola quota del ministero dell’Economia e da F2i. Alla vecchia casa madre rimane la società dei servizi cui spetterà il compito assai arduo di competere in un universo divenuto durissimo e conflittuale nell’età dell’infosfera.
Sullo sfondo, infatti, si vedono non solo e non tanto gli omologhi venditori, bensì le oligarchie spietate delle Big Tech, i cui fatturati sono la somma di diversi paesi europei messi insieme e oltre un terzo del PIL degli Stati Uniti.
La forza negoziale e di mercato di Tim stava proprio nella sinergia tra mezzo e messaggio, secondo una storica configurazione dei grandi apparati di comunicazione nati nell’età analogica ma in grado di difendersi nell’era digitale solo a condizione di mantenere la forza originale.
Insomma, la storia va chiamata con il suo nome: staccare la parte strutturale a mo’ di una bad company, trasferendo lì il grosso dell’indebitamento ed esponendo il lavoro di diverse migliaia di persone ad una presumibile via crucis.
Non per caso il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e la categoria specifica -SLC- hanno preso una posizione assai critica.
Senza dubbio la stecca fu già all’inizio: nella scena iniziale del primo atto della peggiore privatizzazione italiana. Invece di agire come avvenne in Francia o in Germania, cedendo quote minoritarie, o di accedere alla difficile ma affascinante trasformazione in una public company, si preferì cedere l’insieme dell’impresa con un presunto «nocciòlo duro» affidato al gotha del capitalismo interno: dalla Ifil-Fiat alla Pirelli, e poco altro. L’imprenditoria non colse neppure l’opportunità data dal boom del settore, in espansione geometrica negli anni Novanta del secolo scorso. Investirono due soldi, senza crederci.
Seguirono stecche persino di maggiore gravità, dall’assalto dei «capitani coraggiosi» all’indebitamento fuori controllo facilitato da conduzioni miopi e prive di visione. Naturalmente, il management odierno da lì deriva e porta con sé le tracce indelebili dei misfatti. Comunque, in Italia -com’è noto in svariati mondi- se si sbaglia si è premiati, non cacciati dietro la lavagna a ripassare la lezione.
Per parafrasare il rinomato motto di Nanni Moretti, con simili gruppi dirigenti dove si potrà andare?
Altro che rete pubblica unitaria. Il ventilato intreccio con la concorrente Open Fiber non è uno spregiudicato passo di rafforzamento, bensì un ulteriore salvataggio di una sigla rivelatasi inadeguata. Spiccava il curioso ruolo di Cassa depositi e prestiti: oggi qua domani là.
Siamo al cospetto, dunque, di una scelta che anticipa -come i lampi e i tuoni- la burrasca.
In sintesi: pure qui, come a Bruxelles, la destra non riesce a combinare nulla: disoccupazione e cessione della sovranità nazionale. Già, perché se si va vedere la carta di identità di coloro che hanno rilevato la rete si scopre qualche scomoda verità.
La principale struttura delle interconnessioni essenziali per immaginare di poter correre tra algoritmi e intelligenze artificiali va in mano prevalentemente ad un fondo statunitense, di cui è partner l’ex capo della Cia e comandante supremo delle forze armate d’oltre oceano David Howell Petraeus. Quest’ultimo avrebbe persino spifferato un po’ di segreti alla compagna che voleva scrivere un libro accattivante. È verità giudiziaria, non una diceria.
Fin troppo evidente è confrontare il tutto con ciò che ha passato Julian Assange, ora finalmente libero e tuttavia perseguitato per quattordici anni.
E fin troppo ovvio è lanciare un allarme: i milioni di dati dei clienti dove andranno a finire? Chi garantisce?