Tramonta lo stellone di Tremonti

Giulio Tremonti (Lapresse)

All’inizio di quest’anno scrissi per Blitz quotidiano un articolo (“Silvio, Giulio e la bonanza”, 10 gennaio) sottolineando come l’attuale governo fosse nato sotto la buona stella di tassi di interesse in discesa e particolarmente bassi. E come questa manna fosse durata all’incirca per tutta la prima metà della legislatura, permettendo un forte risparmio nella spesa per interessi sul nostro mostruoso debito pubblico e quindi una maggiore facilità a tenere in qualche modo sotto controllo i conti pubblici: nel 2008 l’esborso per interessi era stato di 81,3 miliardi; nel 2009 e 2010 si era ridotto di una decina di miliardi per ciascun anno. Segnalavo, in quell’articolo, anche il fatto che la pacchia stava per finire e che era iniziata una fase di tassi crescenti che ci avrebbe costretti negli anni a venire, assai più che in passato, a leggi finanziarie “lacrime e sangue”. Quanto poi alla pretesa del governo per cui mai avrebbe messo “le mani nelle tasche degli italiani”, è sempre stata millanteria ma per il futuro suonava ancor più risibile.

Ora la svolta sul terreno degli interessi del debito pubblico è in corso ormai da parecchi mesi e per certi versi sta verificandosi più in fretta del previsto. Non solo la Banca centrale europea ha portato nei giorni scorsi il tasso di riferimento principale all’1,5 per cento, secondo aumento in corso d’anno, ma è considerato assai probabile da tutti gli esperti che uno o due ulteriori incrementi siano da prevedersi entro quest’anno. Parallelamente al rialzo dei tassi “ufficiali” Bce, che come noto trascinano tutti gli altri, inclusi quelli sui titoli del debito pubblico, in queste ultime settimane è schizzato all’insù lo “spread” fra Btp e Bund tedeschi: mentre scriviamo ha raggiunto i 285 punti; un anno fa era poco sopra i 120 (e prima della crisi finanziaria del 2007-2008 era addirittura di una ventina di punti). In altre parole, per piazzare i propri titoli decennali lo Stato italiano oggi deve pagare un interesse superiore di circa il 2,8 per cento rispetto a quello pagato dalla Germania e, in particolare, questo differenziale è cresciuto di quasi l’1,6 per cento rispetto a luglio 2010.

La somma dei due fenomeni – rialzo dei tassi e aumento dello spread – comporta per il momento (ma la situazione potrebbe peggiorare) un maggior costo del debito sovrano italiano attorno al 2,1 per cento. Poiché il debito sotto forma di titoli ammonta a oltre 1.500 miliardi di euro, teoricamente lo Stato dovrebbe spendere, nel mutato scenario, 30-31 miliardi di euro di più all’anno in interessi passivi, una cifra da far impallidire la recente manovra pluriennale. Fortunatamente non è così, almeno per il momento: lo stellone di Tremonti non è ancora del tutto tramontato. Infatti il debito italiano, assai preoccupante per la sua imponenza, ha quantomeno il pregio di avere una scadenza media piuttosto lunga (7,16 anni) e quindi i titoli oggi sul mercato giungeranno a maturazione e dovranno essere sostituiti solo gradualmente con quelli assai più costosi di nuova emissione (a meno che, auspicabilmente, nel frattempo la situazione non si raddrizzi e i tassi tornino a calare).

Nel periodo luglio 2011-giugno 2012, ad esempio, scadranno circa 310 miliardi di titoli. Secondo le stime del Tesoro, un rialzo degli interessi simile a quello che si registra attualmente (circa due punti) verrebbe a costare alle casse dello Stato 5,4 miliardi nel primo anno, 11 nel secondo, 14,8 nel terzo e 17 nel quarto anno (la spesa complessiva per interessi aumenterebbe dai circa 71 miliardi dello scorso anno fino ai 97,6 del 2014). Guarda caso, il peggioramento va di pari passo con l’aumento dei tagli al deficit pubblico previsti dalla recente manovra: insomma nel 2013 e soprattutto nel 2014 il governo che verrà si troverà al centro di una “tempesta perfetta”. Ovvio che se lo spread Btp-Bund peggiorasse ulteriormente, cosa che non si può affatto escludere, o, ancor più probabile, se i tassi Bce subissero nuove impennate, il guaio da affrontare diverrebbe ancor maggiore.

Per tutto ciò appare ancor più deplorevole la scelta di ritardare quanto più possibile gli interventi per ottemperare al diktat Ue del pareggio di bilancio: così si continua a ballare sul Titanic, il transatlantico del debito, mentre all’orizzonte già si vede l’iceberg formato da tassi e spread crescenti nonché dai nuovi impegni a ridurre il debito, a partire dal 2014, in ragione del cinque per cento all’anno per la quota che supera il 60 per cento del Pil.

Con le cure omeopatiche e i rinvii non si va molto lontano e soprattutto alla fine si paga un conto assai più pesante di quello che si presenterebbe impugnando le forbici con un po’ più di coraggio. E’ stato notato che in un ventennio di finanziarie all’insegna del rigore e dei tagli, dal 1990 al 2010, la spesa pubblica in termini reali è cresciuta del 54 per cento (figuriamoci se non c’era il “rigore”) e che il debito pubblico, in termini nominali, è quasi triplicato. Il Tremonti tanto criticato dai suoi compagni di merende altro non ha fatto, fin qui, che cercare il galleggiamento, l’espediente per sopravvivere giorno per giorno senza finire fra le braccia della speculazione. I fatti di queste settimane potrebbero indicare che ha voluto tirare troppo la corda: d’altronde i suoi colleghi di governo non gli avrebbero certo concesso una politica di vero rigore, mal sopportando persino le cure palliative del divo Giulio. Che, come ha scritto Luigi Zingales, mal si adatta al mito del risanatore dei conti a tutti i costi che gli è stato costruito attorno: “Durante il suo mandato nel secondo governo Berlusconi l’avanzo primario (ovvero la differenza tra entrate dello Stato e le sue uscite al netto degli interessi sul debito pubblico) si ridusse dal 3,2 per cento del Pil nel 2001 allo 0,3 nel 2005”.

E’ possibile che oggi ci troviamo di fronte a un altro Tremonti, che davvero vuole ridurre la spesa, magari per mettere in difficoltà “i suoi rivali interni” (ipotesi di Zingales), molto più dipendenti di lui dalla spesa clientelare. Ma è più che improbabile, e i segnali certo non mancano, che gli “amici” del centrodestra lo lascino fare.

 

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