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Tremila anni fa già si sballavano. Ma in “chiesa”, non in disco o all’apericena

Età del bronzo, circa tremila anni fa, isola oggi detta Minorca, Baleari, grotta che oggi si chiama Es Carritx, ambiente suddiviso in stanze, con buona evidenza secondo una logica di uso e definizione degli spazi corrispondente ad una liturgia. Liturgia funeraria, liturgia della morte e del confine tra la vita e la morte. Non semplice luogo di sepoltura. Luogo di riti tra cui quelli funzionali ad una qualche supposta forma di comunione e interazione con l’aldilà della vita. Luogo dove i riti venivano officiati da una sorta di clero che noi contemporanei chiamiamo sciamani ma che, come i membri del clero delle nostre religioni, presidiavano e presiedevano il passaggio tra la vita e la morte. In quella grotta tremila anni fa e in quella cultura si svolgevano e si allestivano cerimonie che erano l’equivalente della nostra cristiana messa in suffragio dei defunti (o di equivalenti riti funerari islamici, ebraici, buddisti, scintoisti…). Quella grotta era a suo tempo, una chiesa.

Atropina, scopolamina, efedrina 

Resti di ciocche di capelli in quella grotta, trovati e analizzati. Capelli di tremila anni fa, capelli di chi in quella grotta officiava i riti di morte e vita. I quei resti di capelli tracce evidenti e massicce di atropina, scopolamina, efedrina. Cioè tracce di droghe che oggi definiremmo pesanti, tracce dell’uso di qualcosa che queste sostanze conteneva. Cioè piante, piante che in vario modo conteneva questi alcaloidi. In maniera sistematica, come da entità delle tracce, in quella “chiesa” dell’età del bronzo si cercava contatto con la trascendenza tramite l’assunzione di sostanze allucinogene. In quella chiesa dell’età del bronzo l’assunzione di droghe era parte della liturgia religiosa (in altri analoghi siti archeologici trovati residui di oppio in contenitori litici). 

Lo sballo tremila anni dopo si è fatto…immanente

I resti e le tracce in quella grotta dell‘età del bronzo fanno legittimante supporre una società, una organizzazione sociale dove le tecniche per estrarre dalle piante l’effetto allucinogeno, le relative conoscenze, il tempo e le risorse per accedervi fossero in capo ad una cerchia ristretta. Cerchia ristretta che codificava in liturgia la comunicazione e contatto con la trascendenza, l’immateriale, lo spirituale, il divino o comunque lo si voglia definire.

Di fronte al dramma supremo della condizione umana, la mortalità ineluttabile, da sempre il bisogno di supporre che la morte sia solo morte e non fine. E quindi il correlato disperato bisogno di comunicare, entrare in contatto o risonanza spirituale/mentale con l’altro dalla materia che muore. Appoggiandosi anche all’effetto allucinogeno. Tutte le culture lo hanno fatto, basta pensarci sopra un attimo a cosa gli indiani d’America fumano nei calumet della pace per poi parlare e farsi parlare dal Grade Spirito: Hollywood non lo dice ma non era tabacco.

Tremila anni dopo lo sballo ha non proprio perso ma quasi la sua funzione di chiave per la trascendenza (immaginata o raggiunta che sia) e si è fatto immanente, terrestre, pedestre. Ci si sballa, se ci si riesce, con e all’apericena. Ci si sballa dentro e fuori una discoteca. Ci si sballa alla festa privata. Ci si sballa nella solitudine di una casa privata e nella moltitudine di un luogo di lavoro. Ci si sballa nello squallore delle periferie e nell’opulenza delle residenza dei ricchi. Ci si sballa non più e non tanto per toccare con la mente la trascendenza (o per illudersi di farlo). Ci si sballa invece per drogare l’immanente, per pompare il quotidiano di una eccezionalità garantita. Una contraddizione in termini, la più evidente, la più massiccia, la meno percepita.

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