Tv in rivoluzione, terzo polo, declino di Rai e Mediaset, lotta dei giornalisti Rai contro il governo accaparratore sono i temi di tre articoli di Vincenzo Vita per il Manifesto, che sono qui accorpati.
il cosiddetto terzo polo televisivo è stato per tanti anni un miraggio. Sulla scena mediale italiana, dominata dalle oligarchie di Rai e Mediaset, la possibilità di rompere quel predominio assoluto (circa il 90% di frequenze ed ascolti) rimase una speranza, di fatto basata quasi esclusivamente sulla tormentata emittenza locale.
Ci provò Telemontecarlo, rievoca Vincenzo Vita sul Manifesto, acquisita dal proprietario brasiliano di Rede Globo da Vittorio Cecchi Gori e poi da Telecom. Ma la cittadella del potere nell’immaginario si difese con colpi sopra e sotto la cintura. I racconti del produttore cinematografico, rocambolesco ma sfortunato, furono terribili. La struttura pubblicitaria di Fininvest-Mediaset non scherzava nei rapporti con gli inserzionisti: o con me o contro di me.
La storia del terzo polo si legò strettamente alle sorti della Retequattro berlusconiana, considerata -in base alla sentenza della Corte costituzionale 420 del dicembre 1994- eccedente, come fu confermato dal piano nazionale delle frequenze varato in connessione con la legge 249 varata nel 1997 dal governo dell’Ulivo: non si doveva oltrepassare il 20% del numero dei canali nazionali, fissati in undici. Ma il tutto fu rinviato all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che non chiuse la questione.
La forza della lotta antitrust fu indebolita dalla sconfitta del referendum su tali argomenti del 1995. Quella consultazione, sottovalutata nettamente dallo schieramento del centrosinistra, condizionò gli eventi successivi. Il referendum è rimosso in numerose ricostruzioni degli avvenimenti, forse perché rompe un po’ lo schema buoni-cattivi.
Comunque, l’ostracismo di Mediaset protetto da un colossale conflitto di interessi ottenne una vittoria di Pirro, alla luce degli eventi. Il motivo della difesa ad oltranza di quella rete non era tanto e solo l’ufficio propaganda diretto da Emilio Fede, quanto l’essere un enorme contenitore di pubblicità per le piccole e medie imprese non accettate dall’alterigia della Sipra-Rai. Era la base sociale di Forza Italia.
Tuttavia, lo stesso Silvio Berlusconi (vedi il simpatico volume «Una battuta, Presidente», di Vittorio Amato e Giovanni Lamberti, p.78) si lamentò per l’entrata in scena della trasmissione digitale, che moltiplicò i soggetti in campo.
E, infatti, grazie alla legge Gasparri, il passaggio dall’età analogica a quella numerica fu prevista e facilitata: impulso rivelatosi decisivo.
Certamente, il presupposto antico è stato il marchio divenuto (ex Telemontecarlo) La7, con l’acquisizione dell’azienda da parte del patron del Corriere della sera e del Torino calcio Ubaldo Cairo, ex Publitalia. Come ha asserito proprio il Corriere, La7 supera in prima serata il 5,7% di share.
Ma la vera novità, che ha rilanciato il concetto stesso di terzo polo, è la sontuosa ascesa di Nove, facente capo alla struttura potente che si riferisce a Warner Bros-Discovery. Insieme alla rete pigliatutto (da Maurizio Crozza, a Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, ad Amadeus e domani chissà) albergano sotto tutela statunitense altri 14 canali: 10 free (Real Time, Dmax, Motor Trend, Giallo, Food Network, Warner Tv, Hgtv-Home&Garden, K2 e Frisbee) e 5 pay (Discovery Channel, Eurosport 1 e 2, Cartoon Network e Boomerang). Inoltre, vi è un accordo con Sky, che permetterà agli abbonati dell’impero di Comcast (ex Murdoch) di fruire di dieci canali Eurosport per vedere le prossime Olimpiadi. L’aggregato in questione viaggia attorno all’8% di share.
Quindi, se sommiamo i protagonisti della nuova Repubblica del video, tocchiamo il 15% della fruizione, cui vanno aggiunti i circa due milioni di utenti che utilizzano mezzi diffusivi diversi, figli della rete: dagli smartphone ai telefoni, ai computer.
Una Rai soggiogata dal governo e impaurita da un monologo di Antonio Scurati e una Mediaset affratellata ad una gamba politica ormai piccolina arrancano.
Il declino della Rai sta assumendo tinte mostruose e grottesche, nello stesso tempo.
Il grottesco, per affrontare il tema apparentemente secondario, è il disinteresse mostrato dai vertici sulla mancanza di approvazione definitiva del Contratto di servizio, pur siglato nella seduta dello scorso 18 gennaio dal consiglio di amministrazione e dal governo un paio di mesi dopo, e ora all’esame della Corte dei conti.
Eppure, si tratta della carta fondamentale che disegna tratti e perimetri di un servizio pubblico ormai ridotto (con le dovute eccezioni) a mera costola del potere esecutivo. C’è da chiedersi come mai tale disinteresse. Forse, la risposta sta nella tranquilla navigazione sotto la tutela di Palazzo Chigi, che sembrerebbe prevalere persino sugli atti ufficiali.
Del resto, ciò che è accaduto con il crumiraggio esercitato contro il legittimo sciopero proclamato dal principale sindacato dei giornalisti è un ulteriore passaggio verso la distruzione dei principi dello Stato di diritto, in cui svetta il diritto di sciopero. Violare simile garanzia è gravissimo e rinvia non solo ad Orban, bensì ai padroncini delle ferriere di un secolo fa nonché alla malvagità di chi è abituato a regolare le relazioni industriali con la mera affermazione della sopraffazione da parte dei più forti su coloro che hanno potestà asimmetriche.
Insomma, in quest’ultima vicenda è evaporato il residuo sapore di servizio pubblico della Rai, territorio di caccia prelibato per le scorpacciate della destra.
In tutto questo si insinua la vexata quaestio del rinnovo del consiglio di amministrazione.
Il passato 21 marzo fu pubblicato sui siti istituzionali di Camera e Senato e su quello della medesima Rai l’avviso per la presentazione delle candidature, con il termine del 20 aprile. I curriculum inviati sono stati 70 a Montecitorio e 51 a Palazzo Madama. I due rami del parlamento dovrebbero eleggere quattro dei sette componenti dell’organo. Uno spetta ai dipendenti e due al ministero dell’economia e delle finanze (MEF), ivi compreso l’amministratore delegato. Ecco, proprio tale architettura decisionale presenta notevoli elementi di criticità, non essendo immaginati né criteri selettivi né modalità di scelta secondo le modalità peraltro previste in diverse società pubbliche.
Non solo. Va messa in discussione, sottolineandone gli aspetti di palese incostituzionalità, la stessa legge che stabilisce simili procedure, vale a dire la legge n.220 del 2015 (esecutivo Renzi) recepita dal recente decreto legislativo 208 del 2021, che ha aggiornato il vecchio Testo unico dell’età (2005) dell’ex ministro Gasparri.
A tal fine sono stati depositati presso il tribunale amministrativo del Lazio (numeri di ruolo 4840 e 4841) due ricorsi sottoscritti da alcuni dei candidati (Nino Rizzo Nervo, Stefano Rolando, Patrizio Rossano, e Giulio Vigevani al Senato), assistiti dall’avvocato Giovanni Pravisani. Per l’intanto si attende l’udienza davanti al TAR il prossimo 29 maggio.
Intanto, il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico lotta innanzitutto per sollecitare l’attenzione del Media Freedom Rapid Response che -raggruppando diverse sigle- svolge una importante opera di monitoraggio sullo stato della libertà dei e nei media in Europa. Soprattutto dopo il felice Regolamento europeo (EMFA).
A parte simile intento, peraltro inserito nell’ambito di una ricognizione presso diverse istituzioni italiane, la scadenza intende voltare pagina. Il messaggio è chiaro: basta con le logiche delle consorterie e delle trasversalità divenute negli anni recenti la perversa quotidianità (dopo i partiti hanno impazzato cordate, salotti e consorterie), per aprire una vera fase di lotta.
Sì, lotta: una parola rimossa o edulcorata. Si è compreso che, di fronte all’offensiva di una destra che intende mettere le mani sulla città dell’informazione, chiacchiere compromissorie o piccoli accordi di potere non hanno più ragione di essere. Solo l’entrata in scena di una vera conflittualità è in grado di rompere l’inerzia omologante e il pensiero unico che osserviamo ogni giorno guardando il Tg1, per esempio. E non solo, naturalmente. Neppure va rimosso il colossale conflitto di interessi che anima la scena con la presenza nel governo attraverso Forza Italia delle tre reti di Mediaset. O non va dimenticato che con le sue società un parlamentare della destra fa incetta di giornali e persino della seconda agenzia di stampa nazionale.
Ecco, in tale contesto l’Usigrai accende una scintilla che potrebbe provocare un fuoco generale, rompendo l’inerzia di troppo tempo. La Rai è un boccone prelibato per l’offensiva reazionaria in corso, in vista del probabile referendum sul premierato, che Giorgia Meloni spera verosimilmente di celebrare a reti unificate.
Non solo. Indebolire sul piano strutturale il servizio pubblico magari prelude alla realizzazione di un vecchio sogno liberista, vale a dire la vendita di qualche pezzo (vedi la società degli impianti RaiWay) organizzando uno spezzatino, sull’onda di quello in corso a Tim. Altro che sovranismo digitale, evocato da qualche dichiarazione di esponenti di Palazzo Chigi. Siamo al cospetto di una cavalcata nera con intenzioni malevoli, forse suggerite da qualche gruppo privato che attende da anni l’ora X della privatizzazione. Non è un caso se il Contratto di servizio latita ed è persino ingombrante nel contesto attuale.
Ma l’Usigrai si batte per frenare pure il nuovo corso dei bavagli e delle repressioni a tanto al chilo. Da ultimo, si annovera il caso dell’apertura di un procedimento nei riguardi di Serena Bortone, rea di aver letto nella sua trasmissione il monologo che l’autore (Antonio Scurati, com’è noto) non pronunciò per una assurda censura editoriale. L’elenco di malefatte e provocazioni è lungo, se si pensa che il canale All News diretto all’inizio dal compianto Roberto Morrione è diventato un megafono del governo, con tanto di protesta del comitato di redazione e un diffuso disagio interno.
Ce n’est qu’un debut? Forse è troppo immaginare qualcosa che si riannodi all’età del sessantotto. Tuttavia, in giro per il villaggio globale ci sono tante più cose di quanto si riesca a pensare nelle stanze dei bottoni. La Storia non è lineare, e talvolta appare dove non sembrava pensabile. Dopo Hollywood è il turno della Rai?