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Pescatori indiani, l’Italia vuole le prove: “Marò innocenti”

di Lorenzo Briotti |21 Febbraio 2012 16:35

Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò accusati (LaPresse)

ROMA – In una vicenda così “ingarbugliata”, come l’ha definita il presidente della Repubblica Napolitano, dove le parti in causa sostengono versioni diverse e contrastanti tra loro, quello che manca – dice il Guardasigilli Paola Severino – sono le prove. Le autorità indiane, infatti, non hanno ancora esibito nessuna prova che possa dimostrare che i marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone – che continuano a ribadire la loro innocenza, ma rischiano ora di finire in galera – abbiano effettivamente ucciso i due pescatori indiani, scambiati per pirati.

Eppure, considerato il particolare tipo di armi impiegate dai militari, basterebbe poco: i risultati dell’autopsia, ad esempio, o qualche proiettile recuperato sul motopesca crivellato da colpi. Le contraddizioni invece restano. “Tutto quello che viene detto è basato su idee, ma la prova sullo svolgimento dei fatti, versioni che sono totalmente contrapposte tra le due parti, ancora non c’é stata. Siamo lontani dall’avere una ricostruzione oggettiva”, ha detto il ministro Severino, secondo cui “la posizione del Governo è molto ferma sulla carenza di giurisdizione indiana.

I rilevamenti satellitari provano che la nave italiana era in acque internazionali e la giurisdizione è nostra”. I dati forniti dal satellite dicono che infatti la Enrica Lexie era a 33 miglia dalla costa, anche se nel rapporto inviato subito dopo il fatto dal comandante alla società armatrice Fratelli D’Amato – un documento finora inedito – si parla di un ‘target’ segnalato sul radar a “circa 20 miglia da Alleppey Town” e a “2,8 miglia dalla nave”.

Anche il pubblico ministero indiano sostiene che le miglia di distanza dalla costa sarebbero 22,5, ma secondo i legali dei due marò, che oggi hanno presentato un ricorso all’Alta corte del Kerala sollevando una ‘eccezione di giurisdizione’, la sostanza non cambia: in entrambi i casi si sarebbe comunque oltre le 12 miglia delle acque territoriali, nella cosiddetta “zona contigua” dove però, per “diritto ultraconsolidato”, non si può perseguire il reato di omicidio.

Il rapporto inviato dal comandante della nave all’armatore, di cui l’ANSA è in possesso, è però importante anche per la ricostruzione che viene fornita dei fatti. Una ricostruzione che conferma la versione dei due marò. Si parla infatti di un peschereccio sospetto che si avvicina alla nave e non si ferma, nonostante “il Nucleo militare di protezione abbia avvertito l’imbarcazione con delle luci lampeggianti e mettendo in evidenza le proprie armi. Alle 16, in posizione Latitudine 09 17.2N Longitudine 076 01.8E – prosegue il rapporto – l’imbarcazione era a circa 100 metri a dritta. Il team di sicurezza ha avvistato 6 persone armate a bordo (i marò dicono 5 – ndr) e ha sparato dei colpi di avvertimento (warning shots)”. L’imbarcazione sospetta, quindi, “ha rinunciato all’inseguimento e se n’é andata. Alle 16.30 la situazione era sotto controllo”.

Dunque, nessun accenno a colpi diretti sul peschereccio, nessuna indicazione di danni o feriti. In attesa di conoscere le prove, e mentre le autorità indiane non sembrano interessate a percorrere piste alternative, da parte italiana si continua invece a indagare su quanto è accaduto quel 15 febbraio al largo delle coste indiane.

L’attenzione resta concentrata sull’attacco subito da un’altra nave, la Olimpyc Flair, battente bandiera greca e molto simile alla Enrica Leixe, scampata all’abbordaggio di una ventina di pirati su due imbarcazioni. Sull’episodio, reso noto dall’International Chamber of Commerce, un organismo che si occupa di pirateria, non si conoscono particolari: l’ipotesi è che il ferimento mortale dei due indiani possa essere avvenuto in questo diverso contesto, in uno spazio di mare e in un orario diversi da quelli del presunto tentativo di abbordaggio della Enrica Leixe, ma compatibili con il racconto dei pescatori.

L’ultimo capitolo riguarda le inchieste italiane, quelle aperte dalla procura ordinaria e da quella militare di Roma, che languono per “carenza di informazioni”, visto che gli inquirenti sono in possesso solo delle deposizioni rese dalle persone a bordo della Enrica Lexie. Nessun altro atto ufficiale é arrivato, quando sarebbero numerosi gli aspetti da chiarire. Uno di questi riguarda la decisione del comandante della nave di dirigere nel porto di Kochi, consegnando di fatto i marò alla polizia indiana.

Da quello che è emerso finora, sembra che il comandante sia stato convinto “con l’inganno”, come sottolinea una fonte italiana, secondo cui gli sarebbe stato chiesto di andare in porto per fare il riconoscimento di un peschereccio con delle armi a bordo, indicato come quello dell’abbordaggio subito. Ma era solo una scusa.

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