Il debito, la speculazione, la democrazia

Il debito pubblico, in questo momento storico, coinvolge in tutti i Paesi occidentali il problema della “democrazia”. Ai cittadini sconcertati e impauriti dalle continue e contraddittorie dichiarazioni e decisioni sul debito pubblico, sull’influenza che quello degli altri Paesi può avere sul nostro, sui comportamenti altalenanti dei mercati, si pone drammaticamente ora un problema ancor più grave e finora sottovalutato.

Ovvero se debbano essere ridiscussi completamente la democrazia come sistema e i diritti dei cittadini, le loro disuguaglianze, le caratteristiche della società in cui sono destinati a vivere. Il debito pubblico è invece un problema che riguarda soprattutto i suoi creditori, i cui interessi molto spesso, e in questo frangente quasi mai, non coincidono con quelli dei cittadini. L’equilibrio tra debito e democrazia è peraltro assai difficilmente raggiungibile. Ed è per questa ragione che quando il mercato del debito diventa despota quell’equilibrio viene infranto, a tutto danno della stragrande maggioranza dei cittadini, ed a vantaggio di quell’uno o poco più per cento che “si mangia” quasi tutta la ricchezza nazionale.

Il sistema democratico non è quasi mai riuscito a imporsi poiché si è sempre scontrato con l’ostacolo del potere economico, potere che anche nell’antica Roma, maestra del diritto, era quello smisurato di un’aristocrazia latifondista, la quale vedeva nella democrazia un nemico frontale. Il mercato oggi più che mai condiziona i governi ed è lo strumento dell’unico vero potere, che fa sì che il sistema democratico assomigli sempre più ad un governo dei ricchi.

[…] Mi bastan tre esempi. Il primo concerne l’andamento altalenante dello spread e delle borse, condizionato dalle valutazioni delle non meglio qualificate opache agenzie di rating, tra cui Moody’s che nel giro di poco tempo è passata dal declassare l’Italia all’esaltarne il Governo, anche se in quei pochi giorni nulla era cambiato.

Il secondo ha come oggetto il governatore della Bce nei suoi tentativi di arginare la speculazione, che non pare peraltro la priorità di nessun governo europeo. Mario Draghi è stato accusato brutalmente dall’autorevole economista tedesco Manfred Neumann di perseguire un’arrogante politica che mette in pericolo l’esplosione di un’inflazione, pari a quella di cui soffrì la Repubblica di Weimar e di confondere quindi la politica con l’esclusiva funzione monetaria della Bce.

E che dire infine della recente uscita di Mitt Romney, che propone di legare il dollaro al Gold standard, cioè a quel sistema che giustamente John Maynard Keynes bollava come una “reliquia barbara”?

Insomma, il problema che assilla l’umanità in questo momento è solo uno e si chiama: denaro. Il denaro che ha i suoi riflessi non solo sul debito pubblico, ma sulla vita decente dei cittadini, vittime sempre più della disoccupazione, della sottovalutazione dei loro diritti, mentre cercano di avere speranze di vita migliore, e sono invece colpiti e commissariati da una speculazione che, aiutata anche nella tecnologia, gioca solo sul brevissimo termine. E così produce ricchezza il più velocemente possibile e impone ad altri quelle procedure di austerità che finora hanno giovato, con l’aiuto dei governi, solo alle banche e alle grandi istituzioni finanziarie.  

L’asserzione ripetuta dovunque è che non vi è alternativa all’austerity e con l’aiuto quasi indiscriminato dei media quelle asserzioni sono riuscite a trasformare la crisi delle banche, che avevano temerariamente giocato sulla speculazione, nella crisi del “welfare state”, dando così ai governi la chance di rimodificarlo a uso e consumo del capitale finanziario. Ma il potere del denaro ha provocato, oltre che uno scoraggiante e devastante decadimento delle élite, un assopimento totale della legalità. Il disastro che è avvenuto con le falsità dei dati forniti nel Libor avrebbe in altri tempi provocato uno sgomento. Ora questo sembra solo uno dei modi di operare del sistema, tant’è che le reazioni dei banchieri colpevoli, che hanno fornito i dati falsi, è che tutto ciò non sarebbe né illegale né criminale. Identica assuefazione ha declassato l’avidità, che pur secondo San Paolo era “radice di tutti i mali”, a male minore dell’attuale società. Infatti la reazione morale del pubblico americano agli enormi bonus dei manager di Wall Street (ma non solo) non è stata, secondo Micael Sandel, filosofo di Harvard, l’indignata ribellione alla esagerata avida remunerazione del manager, quanto invece il compenso per il fallimento delle imprese da loro gestite. È così che anche la morale ha preso l’aspetto di “morale del denaro”.

Ma questa insofferenza per la legalità si riscontra in quel che sta ora avvenendo negli Stati Uniti d’America. Dopo le pesanti recenti ammende inflitte dalla giustizia federale americana a Ing, a Standard Chartered e a Deutsche Bank, si è appreso mercoledì scorso che anche la Bank of Scotland è indagata per sostegno al terrorismo, per illegalità internazionali e per riciclaggio. Né fa più scandalo che anche grandi istituzioni finanziarie siano nel recentissimo passato state condannate a pesanti ammende, quali la Barclays, il Credit Suisse, i Lloyd’s e Jp Morgan.  

Il denaro (nelle sue varie vesti di speculazione, di debito pubblico, e di austerità) è ora purtroppo protagonista delle scadenze elettorali di varie democrazie, o di fine dei mandati dei governi tecnici. Queste scadenze inducono all’instabilità delle dichiarazioni, alle promesse e alle decisioni sovente contraddittorie, che hanno due esempi piuttosto clamorosi.

Il primo è l’ondivago e contraddittorio atteggiamento europeista della Cancelliera Angela Merkel, sia per quel che riguarda la Grecia, sia sulla tenuta dell’euro, e il suo futuro. Le strutture interne della democrazia tedesca dalla Corte Costituzionale al Parlamento, così come l’opinione pubblica, sono spaccate, e l’unico denominatore comune rimane il mito dell’austerity, soprattutto per gli altri, e ciò spiega l’atteggiamento della Merkel.

Il secondo clamoroso esempio è costituito dalle elezioni americane del prossimo novembre. Un lungo articolo sull’ultimo numero del New Yorker entra negli sconvolgenti dettagli dell’influenza che i contributi in denaro ai due candidati avranno sull’elezione del prossimo presidente, soprattutto dopo che, con la sentenza Citizen United del 2010, la Corte Suprema ha dato il via libera, senza limitazioni, ai contributi elettorali da parte delle grandi Corporation. La conclusione del lungo articolo, che riporta una dichiarazione di Bill Burton è: “una volta che il big business si rende conto che può comprare la Casa Bianca, voi dovete domandarvi quale sia il limite”.

Non posso al termine che dichiarare che, a parer mio, non è urgente soltanto la lotta alla speculazione dei mercati finanziari, ma diventa urgentissima per la classe politica e le istituzioni una seria ridiscussione dei principi basilari della democrazia, dei rapporti fra i poteri dello Stato, dell’influenza diretta e indiretta delle lobby economiche. Altrimenti dovunque le prossime elezioni saranno inutili. Ma questa volta la discussione dovrà essere portata avanti anche dai cittadini nelle loro varie e diverse formazioni, perché è solo dalla loro volontà, e non da quella imposta dall’interno o dall’esterno, che si giocherà il destino della democrazia in Italia, in Europa e negli altri Paesi.

Guido Rossi sul Sole 24 Ore del 26 agosto 2012

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