Verrà ricordato come uno dei più enormi bluff del ventunesimo secolo, il temibile virus H1N1, ovvero l’influenza che rischiava di spopolare il mondo. Per quasi un anno, l’intero pianeta, dai tropici ai poli, ha tenuto il fiato sospeso aspettando la pandemia perfetta. Ha aspettato, ha ancora aspettato. Ma non è successo nulla. L’influenza è terminata, come era iniziata, svanita nel nulla. E, ironia della sorte, alla fine si è venuti anche a sapere che questa febbre non solo non era grave, ma era persino meno pericolosa della variante normale. E’ stata molto meno dannosa di una comunissima febbre stagionale.
Un bell’articolo dello Spiegel Online racconta i retroscena di questa incredibile e surreale storia. E svela come in fondo la morale della storia è sempre quella: la paura è un affare intramontabile che tira su un’enorme quantità di soldi. Chiedetelo a tutte le compagnie farmaceutiche che hanno sommerso il pianeta di dosi di vaccino inutili quanto lucrative.
L’inizio della storia si svolge in Messico dove Edgar, un bambino di sei anni, contrae per primo l’influenza suina. Sembra grave, poi dopo qualche settimana gli passa. Ma intanto il morbo comincia a diffondersi. Ci sono le prime vittime. Qualcuno si allarma, scattano le prime analisi, poi qualcuno fa la chiamata giusta. Il WHO, l’Organizzazione Mondiale delle Sanità, è allertata. La scena passa a Ginevra. E’ l’inizio della fine.
Sì, perché una serie di circostanze concorrono perché l’irreparabile idiozia sia commessa. Da una parte la folle evoluzione della scienza, dall’altra la rapacità degli industriali.
La grande abbondanza di ricerche scientifiche ha creato una situazione paradossale. Se non fosse stato per quei migliaia di laboratori e per quegli specialisti che, per così dire, vivono di influenza, nessuno avrebbe notato il virus H1N1, virus che, dopo aver fatto placidamente il suo corso, sarebbe scomparso nell’indifferenza generale.
Ma le cose non sono andate così. Questo perché esistono, sparsi in tutti i paesi del mondo, persone e istituzioni che girano, assorbono e producono soldi in base all’evoluzione delle malattie. A volte si ha l’impressione – ha commentato Tom Jefferson, di un istituto no profit internazionale – che c’è un’intera industria che non aspetta altro che si verifichi una pandemia ». Oppure, per dirla con le parole più goffe di Markus Eickmann, capo di un laboratorio a Marburgo: « Una pandemia è per un virologo quello che un’eclissi solare è per un astronomo ».
Rivengono alla mente le parole dello scienziato e scrittore Georg Lichtenberg : «La molta lettura ci ha portato una barbarie evoluta». Si sostituisca – scienza – con – lettura – ed il gioco è fatto.
Dall’altro lato esistono le grandi compagnie farmaceutiche, ricche, potenti, piazzate nei posti giusti. La gestione a dir poco naif della crisi da parte del WHO è anche responsabilità loro. Nei momenti delle decisioni i loro rappresentanti erano sempre lì, nel quartiere generale dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, arrivando anche a parlare col segretario generale Ban Ki Moon, e sempre, in ogni caso, prodigando disinteressatamente saggi consigli. Per dirne solo una – ma di esempi ce ne sono diversi – uno dei maggiori consulenti del WHO, Albert Osterhaus, è il direttore dell’European Scientific Working Group on Influenza, gruppo di ricerca finanziato dalle case produttrici di vaccini.
E così, mentre i governi hanno speso milioni di euro per rifornirsi in vaccini contro una pandemia inesistente, qualche industriale farmaceutico si è arricchito oltre ogni ragionevole misura. Non c’è che ammirare il ministro polacco della Salute, Ewa Kopacz, che dopo diverse battaglia riuscì con lungimiranza a impedire che il suo governo accettasse di compare l’antidoto, dicendo davanti al parlamento: «E’ mio dovere firmare accordi nell’interesse dei polacchi o in quello delle case farmaceutiche?».
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