ROMA – Augusto da eversore a padre della patria, mentre la vecchia aristocrazia di Roma si sfaldava nel sangue e nelle epurazioni e le nuove classi avanzavano verso il potere: il libro The Roman revolution, la rivoluzione romana, pubblicato nel 1939 dallo storico inglese Ronald Syme, è riproposto in Italia, quando ormai la prima edizione, del 1962, era da tanto tempo esaurita.
Nell’anno delle celebrazioni bimillenarie di Augusto, non è stato fatto molto, ma quel poco è tutto intriso di retorica come solo in Italia sanno fare. Ripubblicare “La rivoluzione romana” costituisce un esempio di come si celebrano grandi eventi e personaggi, senza remore, senza polvere. Il libro uscì nel 1939 in Inghilterra, in Italia arrivò dopo la guerra perché sotto il fascismo non era ammesso scalfire il mito dei Cesari.
La “Rivoluzione romana” non è solo un capolavoro di storiografia, è anche uno strumento utile per capire la politica, quella universale, retta da regole valide oggi come nel passato più remoto. Il partito di Augusto, la sua struttura, la sua organizzazione, i suoi ideali e le sue bassissime ambizioni, il suo rapporto con i blocchi sociali di riferimento: sono il paradigma di ogni politica.
Leggendo vicende di duemila anni fa, risulta più facile capire le trame, leggere il disegno complessivo di quanto non sia possibile con i fatti di oggi, vissuti in diretta ma nella frammentazione di una cronaca continua ma spicciola che disintegra la prospettiva.
Dino Messina ha scritto per il Corriere della Sera:
“Syme non è popolare come Eric Hobsbawm, ma la sua Roman revolution è ormai un classico. Merita di essere riletta non solo per lo stile tacitiano e perché rompe il paradigma della repubblica romana fondata sulla lotta tra ottimati e popolari, ma perché introduce il concetto di classe dirigente. La storia di Roma, per Syme, è la storia della sua classe dirigente e della lotta dei suoi membri per il potere, la ricchezza e la gloria. Cesare è un patrizio e marcia contro Roma, perché un Senato impaurito dal suo valore militare vuole privarlo del consolato e delle legioni.
“L’hanno voluto”, disse contemplando i morti romani di Farsalo. C’era dolore, ma anche insofferenza e risentimento: era stato defraudato del diritto irrinunciabile per un aristocratico romano di lottare con i suoi pari per il primato, non per distruggerli. La famiglia di Cesare era più antica della repubblica e Cesare era patrizio fino al midollo. La repubblica romana era in mano a patrizi e nobili che controllavano il Senato, il consolato, la magistratura più importante perché militare, perfino il tribunato.
Le elezioni venivano vinte con accuse di ogni tipo ai rivali, giochi, feste, donazioni di grano e denaro al popolo. Gli uomini nuovi accedevano alle cariche solo se cooptati da qualche famiglia nobile per farsi difendere.
L’ultimo secolo della repubblica registra una crisi senza precedenti: nel giro di vent’anni Roma ebbe cinque guerre civili e l’impero fu più volte sul punto di spezzarsi. Roma gestiva un impero mondiale come una città greca, non si poneva il problema della cittadinanza agli italici, né integrare le élite dell’impero.
Questo compresero in sostanza Cesare, e poi Augusto, nipote di un banchiere di Velletri, e per questo vinsero. Per il suo Senato Cesare reclutò le classe dei possidenti delle città italiche, persone dotate di grandi mezzi finanziari, banchieri, industriali, proprietari terrieri, che, come i nobili di Roma, erano in grado di reclutare un esercito in caso di bisogno.Tra i 400 nuovi senatori di Cesare erano presenti i suoi seguaci di ogni parte d’Italia. Oltre agli italici, Cesare introdusse anche magnati locali della Spagna e della Narbonense. Augusto continuò la rivoluzione di Cesare: fece entrare nelle cariche dell’impero novi homines provenienti dall’Italia e dalle province, premiò i suoi ufficiali, anche se figli di liberti, e fece avanzare i giovani.
L’abilità di Augusto fu di trasformare Roma in una monarchia senza eliminare le magistrature repubblicane, limitandosi a depotenziarle, accentrando ogni carica nelle sue mani e il comando di tutte le legioni dell’impero. Soprattutto, la trasformazione avvenne celebrando la repubblica, sottolineando la continuità del nuovo regime col precedente.
In questa operazione Augusto fu coadiuvato da uomini di cultura come Tito Livio, Virgilio ed Orazio. Lo storico preferito di Augusto fu Tito Livio, dalla cui storia nacque il mito della repubblica romana fondata sul conflitto tra nobili e plebei, un mito veicolato nelle ideologie moderne dalla rivoluzione francese, raffigurata in toga romana da Jean Louis David.
Anche il regime di Augusto fu oligarchico: per Syme, in tutti i tempi, quale sia la forma di governo – monarchia, repubblica, democrazia –, dietro la facciata c’è sempre un’oligarchia. L’immagine di Roma che esce dalle pagine di Syme non è idilliaca, ma Syme vedeva la storia romana da Oxford e non ne era certo scandalizzato”.