Libro-confessione di fisica tedesca: “Stuprata dai russi nel 1945”

Gabriele Kopp

Quando una persona compie 80 anni, significa che nella sua vita ha visto nascere e morire 29.200 giorni. Nel caso di Gabriele Köpp, capita che quella vita abbia incluso un dottorato in fisica, una cattedra da docente universitaria, amicizie con professori e premi Nobel e addirittura otto figliocci. Ma, purtroppo, anche 14 lunghi giorni che hanno proiettato la propria pesantissima ombra su tutti gli altri, condizionando la vita di Gabriele che, ancora oggi, ha problemi a mangiare e dormire.

Durante quelle due settimane del 1945, la donna – che all’epoca aveva solo 15 anni e di sesso non sapeva nulla – fu stuprata a più riprese dai soldati russi che entravano in Germania. Un trauma che ha inciso profondamente sulla sua vita affettiva, rendendola incapace di sentire qualcosa per un uomo e “condannandola” alla solitudine, come scrive Susanne Beyer in un articolo apparso sull’edizione internazionale del giornale tedesco Der Spiegel.

Per liberarsi di quel peso così opprimente, su consiglio del suo analista, Gabriele ha scritto un libro proprio su quei 14 giorni, intitolato “Perché dovevo essere una ragazza?”. Una testimonianza dall’enorme valore, dal momento che Gabriele è la prima donna tedesca a scrivere un libro non anonimo sulle violenze subite durante la Seconda Guerra Mondiale.

Prima del suo, c’era infatti stato “Una donna a Berlino”, pubblicato nel 1950 e, di nuovo, nel 2003. Ma l’identità dell’autrice era rimasta ignota fino alla sua morte e, quando si scoprì che era una giornalista, sorsero alcuni dubbi sull’eventuale esistenza di una co-autrice. Inoltre, la protagonista del libro all’epoca delle violenze aveva circa trent’anni: un’età ben diversa da quella dell’adolescente Gabriele che, invece, era ancora poco più che una bambina.

In tutto il libro, Köpp non riesce a definire gli stupri. Parla di “un posto dell’orrore”, di una “porta per l’inferno” e identifica gli aggressori come “bruti”. E a chi le chiede come mai non sia in grado di descrivere precisamente quanto le accadde risponde: «Non riesco nemmeno a dirla, quella parola».

Raramente le donne vittime di violenza raccontano volontariamente la loro esperienza: una reazione che gli esperti descrivono come “doppio trauma”. Parlandone, infatti, al dramma dell’episodio si aggiungerebbe quello della sua rievocazione, troppo dolorosa per moltissime di loro.

Nessuno sa con esattezza quante donne furono stuprate durante la guerra, ma molti studi sul tema parlano di circa due milioni, nonostante non ci siano prove per documentare tutti gli episodi.

Secondo uno studio di Philipp Kuwert, primario del reparto di psichiatria e psicoterapia dell’University Hospital of Greifswald, nella Germania del Nord, l’età media delle vittime era di 16,7 anni e ciascuna di loro sarebbe stata violentata in media 12 volte. Circa la metà del campione preso in esame, inoltre, avrebbe manifestato sintomi post-traumatici per il resto della propria esistenza, dagli incubi ai pensieri suicidi.

L’orribile esperienza, inoltre, si sarebbe ripercossa sulle generazioni successive, dal momento che le madri dal doloroso passato avrebbero spesso manifestato serie difficoltà nello sviluppare un legame affettivo con i propri figli, oltre che con gli uomini in generale.

Nel caso di Gabriele, però, i rapporti più difficili sono invece stati quelli con le donne. Durante la fuga dai soldati sovietici, infatti, mentre si nascondeva con altri rifugiati nelle case di un piccolo villaggio, furono proprio le altre donne a spingerla tra le braccia dei violentatori, quando questi scoprirono il “covo” segreto. «Dov’è la piccola Gabi?» chiesero, infatti, ad alta voce le compagne più vecchie quando i soldati entrarono nell’edificio. Senza farsi alcuno scrupolo la spinsero a uscire allo scoperto, “sacrificandola” per salvare loro stesse. «Disprezzo quelle donne» scrive Gabi nelle sue memorie, incolpandole delle violenze subite in quelle due interminabili settimane.

Ma anche il difficile rapporto con la madre ha condizionato la sua ostilità verso il proprio sesso. Spinta da lei, Gabi era fuggita da sola con le sorella (di cui aveva perso traccia poco dopo e che non avrebbe mai più rivisto). Durante quei 14 giorni d’inferno, per trovare un po’ di conforto, aveva scritto una lunga lettera alla madre, spaventata dalla scomparsa del proprio ciclo mestruale (che sarebbe tornato solo sette anni dopo) e dagli abusi che aveva vissuto.

Quando riuscì a scappare si mise subito a cercarla e la trovò, 15 mesi dopo, ad Amburgo. Con sua grande sorpresa, però, la madre non si dimostrò affatto contenta di vederla. La salutò freddamente, si rifiutò di starla a sentire e le raccomandò solo di non parlare a nessuno di quanto le fosse accaduto. Se proprio voleva, poteva scriverlo, le disse. E così Gabi fece, raccogliendo gli appunti che, oggi, fanno parte del libro e che sono stati donati alla Casa della Storia di Bonn.

Avrebbe cominciato a liberarsi dei propri fantasmi, però, solo quarant’anni dopo, quando – dopo un esaurimento nervoso – accettò di cominciare una terapia psicoanalitica. «L’analisi è stata il punto di svolta della mia vita» confessa Gabi, che per la prima volta si innamorò, anche se del proprio terapista. Non accadde nulla perché l’uomo era molto professionale, ma ugualmente «il solo fatto che per me fosse di nuovo possibile provare qualcosa per un’altra persona mi cambiò la vita». Fu proprio lui a spingerla a scrivere il libro, con cui ha affrontato non solo una pagina terribile della propria storia, ma di tutta la Guerra.

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