ROMA – È nelle librerie “La Piuma” (Baldini & Castoldi, euro 13), il libro postumo di Giorgio Faletti. Nato da un’idea di una canzone scritta per Angelo Branduardi, è un testo di cento pagine scarse, incluse le illustrazioni di un altro musicista amico di Faletti, Paolo Fresu. È la storia, per l’appunto, di una piuma:
“Una favola morale, che accompagna il lettore attraverso le piccole, meschine, ignoranti bassezze degli uomini, sino a comprendere, attraverso il più innocente e semplice degli sguardi, il senso profondo delle cose. Del loro ruolo. E della fine. Seguiamo una piuma mentre traccia il suo invisibile sanscrito nel cielo, la vediamo posarsi sul tavolo dove il Re e il Generale tracciano i piani per la battaglia per la conquista di Mezzo Mondo, noncuranti di chi poi dovrà combatterla; ascoltiamo insieme a lei i tentativi del Curato di intercedere a favore dei contadini con il Cardinale privo di fede; attratti da una dissonante melodia volteggiamo dentro al Teatro, per assistere allo spettacolo meraviglioso e crudele della Ballerina dal cuore spezzato: il nostro volo ci porterà a conoscere altri, sventurati personaggi finché la piuma non incontrerà lo sguardo dell’unico che saprà capire quello che nessuno prima aveva compreso”.
Scrive Antonio D’Orrico sul Corriere della Sera:
«La piuma arrivò risalendo il vento». Eccolo l’ultimo incipit di Faletti. Il bello è che non si sa che tipo di piuma sia. «Forse era la penna remigante di un’aquila albina o forse addirittura una delle penne timoniere di una mitica fenice». Ma può una cosa volatile, al limite della consistenza, come una piuma avere una storia? È la scommessa del libro.
Dalle persone che gli sono state vicine, la moglie Roberta, l’agente Piergiorgio Nicolazzini, il vecchio amico Paolo Fresu (che ha illustrato il volume), sappiamo che Faletti girava intorno da tempo alla storia di una piuma. Ogni tanto ne parlava con le persone di cui si fidava.
Raccontava che l’idea era di fare un musical incentrato sull’avventura di una piuma. Faletti aveva già scritto le musiche e immaginato lo stile delle scenografie e dei costumi proprio prendendo spunto dai disegni di Fresu. Si era portato avanti. Ma allestire un musical, uno spettacolo in genere, non è un lavoro da poco. È un cantiere che sai quando si apre ma non sai mai con certezza quando si chiuderà.
Faletti ne sapeva qualcosa. Era rimasto scottato da un’esperienza precisa. Avvenne quasi subito dopo l’uscita di Io uccido . Quando si parlò di farne a tamburo battente un film, anche sull’onda dell’incredibile successo. I diritti li aveva acquistati Aurelio De Laurentiis. Il progetto era grandioso. Così come Faletti aveva sfidato gli americani proprio nel loro genere letterario nazionale (il thriller hi-tech con optional di serial killer), bisognava fare lo stesso sul piano cinematografico (pensando al Silenzio degli innocenti e simili).
L’ambizione era quella di dimostrare che gli italiani possono farlo meglio (degli anglosassoni). Si era partiti in quarta cominciando a ragionare sulla sceneggiatura. Il film sembrava così imminente che Faletti si era divertito, con la complicità di De Laurentiis, a immaginare il cast. Addirittura, in un’intervista per «Sette», Faletti mi aveva confessato i suoi desiderata, gli attori che avrebbe voluto vedere nei panni dei personaggi di Io uccido.
A rileggerlo ora quel pezzo fa tenerezza. Sembriamo due ragazzini che giocano con le figurine (celo, manca). C’era George Clooney che faceva Frank Ottobre, il malinconico poliziotto americano. C’era Jean Reno che faceva il commissario Hulot, il collega francese di Ottobre. Mi ricordo che Reno era molto sponsorizzato da De Laurentiis. E c’era, suono di fanfare, Jack Nicholson che faceva il generale Parker. Ricordo che obiettai a Faletti il fatto che Nicholson era completamente diverso da come il generale Parker appariva nel libro (dove somigliava più a un tipo alla John Huston). Ma Faletti replicò che il cinema ha ragioni che la letteratura non conosce.
Passarono i mesi e poi gli anni ma il film non si fece. Capita spesso nell’ambiente del cinema. Tra il dire e il girare… E così del film Io uccido Faletti non mi parlò più. E io mi guardai bene dal fargli domande in proposito. Però Faletti, che non era uno che si arrendeva facilmente, cominciò a parlarmi di un altro progetto, un musical che avrebbe avuto come protagonista una piuma. Era una favola che aveva scritto. Vi si raccontava l’avventura di una piuma che portata dal vento si infilava prima nel palazzo di un re, poi nella casa di un cardinale, quindi nel camerino di una ballerina, successivamente nell’alloggio di una prostituta…
Ogni volta la visita della piuma viene ignorata dai personaggi coinvolti. Il re è troppo impegnato a discutere assieme al suo generale la strategia di una battaglia decisiva per le sorti della guerra che sta combattendo. Il cardinale è, poco caritatevolmente, distratto dalle questioni economiche della diocesi che sta esaminando con il suo curato/contabile. La ballerina ha altro da pensare perché ha saputo, nel preciso momento in cui la piuma svolazza nel suo camerino, che il suo fidanzato non la ama più. La prostituta deve stare dietro ai suoi affari perché ha appena ricevuto in camera da letto un cliente molto danaroso e molto generoso…
Trattandosi di un apologo, di un’allegoria, ognuno di questi personaggi simboleggia qualcosa con la lettera iniziale maiuscola. Il re è il Potere. Il cardinale è la Religione (versione temporale). La ballerina è la Bellezza. La prostituta è il Sesso (variante mercenaria). Solo l’ultimo dei personaggi (non vi dico chi è) si accorge della piuma. La sua sensibilità e curiosità verranno premiate con il regalo più bello che un abitante della Terra possa sognare.
La piuma non diventerà più un musical. Non andrà in scena con accompagnamento di orchestra, sfavillio di luci, dispiego di coreografie e scenografie. Non sarà mai lo spettacolo che Faletti aveva immaginato per riunire in un’opera sola i suoi molteplici talenti, quello letterario, quello musicale, quello teatrale, quello figurativo. Il destino ha deciso altrimenti. La piuma è diventata il commiato di Faletti dal suo pubblico. Un commiato per voce sola anche se, quando la si legge, la favola rivela una musicalità segreta.
Roberta Faletti, raccontando in una piccola nota al testo di come lavorava il marito, scrive: «C’erano giorni in cui il ticchettio sulla tastiera di un computer, dove si inseguivano lettere a costruire parole, si alternava al rumore più attutito di dita sui tasti di un pianoforte, dove si inseguivano note, prima incerte poi sempre più chiare, a costruire melodie». Ecco, La piuma è una favola che non sembra scritta con i tasti del computer ma con quelli del pianoforte.
Più di ogni altra cosa, Faletti sognava di diventare un grande cantante e musicista. Già ai tempi di Drive In , la trasmissione che negli anni Ottanta lo lanciò come comico, lo prendevano in giro per questo suo debole canoro. Non gli è bastato quasi vincere da perfetto outsider un Festival di Sanremo (con il rap antimafia Signor tenente), non gli è bastato che Mina abbia dato un’accorata, struggente interpretazione di Compagna di viaggio, una delle sue canzoni più belle e delicate, Faletti avrebbe voluto di più dalla musica e avrebbe voluto dare di più alla musica.
La lontanissima origine della Piuma è proprio in una canzone scritta da Faletti per Angelo Branduardi, La regola del filo a piombo. I primi versi dicono: «Anche il peso di una piuma scende / se c’è un soffio d’aria che se la riprende / per follia di vento può salire su ma poi torna giù». È lì che comincia questa storia.
La canzone risale agli anni Novanta, ben prima di Io uccido , ben prima di tutto. La piuma non era stata pensata come commiato, non era nata per essere un messaggio in bottiglia da affidare alle onde del mare con consegna postuma, non voleva né doveva essere un addio. Ma il caso ha disposto altrimenti. La piuma è diventata un addio preterintenzionale (se così si può dire).
Eppure non ci poteva essere uscita di scena più giusta. Le ultime parole di Faletti sono le parole di una favola e contengono una morale, leggera come il vento che soffia in tutto il racconto. Faletti, che sapeva raccontare storie assai truci, era nella vita un ragazzo gentile, quasi settecentesco nel modo di fare. Mina, nel suo necrologio, ha detto che era una persona «garbata». Il garbo di chi lascia come eredità una favola scritta nel cielo da una piuma in un linguaggio arcano ed elegantissimo (un «invisibile sanscrito»). Perché la piuma di Faletti è una penna. Una penna come quelle delle aquile albine e delle fenici. Ma anche una penna come quella degli scrittori. Il testamento di Faletti è un elogio della fantasia.
Estratto del libro di Giorgio Faletti pubblicato da il “Corriere della Sera”:
La piuma arrivò risalendo il vento. Nessuno si accorse di questo strano fenomeno, forse nemmeno il vento stesso, che per natura ha canne da piegare e foglie da girare sulle dita e stagni da stupire con gocce di pioggia che lasciano cerchi improvvisi e bolle sulla superficie immota dell’acqua. Tracciando il suo invisibile sanscrito nel cielo, la piuma sorvolò un villaggio popolato di uomini, che come tali prestavano attenzione solo a ciò che avveniva in terra, davanti ai loro occhi.
Un fabbro batteva il ferro rovente di una lama chiedendosi se sarebbe stata una buona spada, un contadino seminava il suo campo chiedendosi se sarebbe stato un buon raccolto, le donne stavano al fiume a lavare i panni chiedendosi se sarebbero diventati bianchi e immacolati. Solo i bambini correvano senza nulla chiedersi, giocando e schiamazzando per le anguste vie del villaggio, fra le case di fango e paglia, inseguiti da cani festanti che, pur senza capire, si univano al gioco.
Alcuni cavalli erano impastoiati davanti alla locanda dove cavalieri senza macchia e senza paura sostavano per stordirsi di vino, procurandosi macchie sulle vesti mentre cercavano di dimenticare la loro paura. Nessuno riuscì a vedere la piuma perché nessuno aveva tempo a sufficienza per alzare gli occhi al cielo e riuscire anche solo a guardarla.