“Il calcio ha perso”, il libro di Matteo Spaziante e Franco Vanni sulla crisi del mondo del pallone

“Il calcio ha perso”. È un titolo-verdetto quello del libro a firma dei giornalisti Matteo Spaziante e Franco Vanni uscito per Mondadori a gennaio. Un’analisi scrupolosa e dettagliata dei motivi che hanno condotto il “giocattolo più amato dagli italiani” vicino al punto di rottura. “L’indebitamento complessivo dei club di Serie A negli ultimi dodici anni è più che raddoppiato, avvicinandosi ai 5 miliardi di euro – afferma Vanni -. Le società che bruciavano cassa già prima del Covid con la pandemia si sono trasformate in inceneritori, e hanno persino il coraggio di chiedere i ristori”.

Secondo i dati del Report Calcio FIGC, che i due autori riportano nel loro saggio, nel 2019-2020 la Serie A aveva già subito un calo dei ricavi del 15 per cento, passando da 3,4 a 2,9 miliardi di euro. Nel frattempo i costi complessivi sono rimasti alti, con un calo del 7 per cento appena – da 2,6 a 2,4 miliardi – ottenuto in gran parte spalmando gli stipendi dei giocatori sulle stagioni successive. “Non un taglio, quindi, ma un rinvio – prosegue Vanni -. Nella stagione 2020-2021, interamente segnata dal Covid, i danni sono stati anche maggiori. Per rimettersi in piedi, al calcio europeo di club non basterebbe nemmeno tagliare i costi per un paio di miliardi, una soglia considerata la massima possibile senza interventi strutturali sui campionati e un cambio radicale delle norme finanziarie di settore. L’impatto a livello di risultato operativo ricavi-costi della pandemia, secondo l’UEFA, si aggira tra i 5,3 e i 6,2 miliardi di euro”.

Nonostante ciò, gli stipendi anche dopo l’annus horribilis del 2020 e ancora immersi negli strascichi della pandemia, continuano a rappresentare il 70-80% del fatturato delle società italiane, riducendo così la possibilità di fare altri investimenti, come quelli nella creazione di stadi proprietà, salvo rare eccezioni. “La pandemia è stato un detonatore che ha inciso sulla situazione economico-finanziaria già esplosiva del mondo del calcio, in Italia in particolare. Ed è stata anche una grandissima scusa: in nome del Covid i club hanno chiesto ristori, sconti e tempo per il pagamento delle tasse al governo. È difficile per un mondo che continua a pagare salari da molti milioni ai calciatori pretendere soldi pubblici. Infatti quasi ovunque hanno avuto risposte negative”.

Come sottolineato in “Il calcio ha perso”, è uno strano cortocircuito quello tra le dichiarazioni dei dirigenti delle società che fanno ammenda per aver portato il calcio sull’orlo del fallimento (“Va fatta anche un’autocritica, il calcio pre-pandemia stava già viaggiando su binari di insostenibilità e la pandemia ha fatto da acceleratore a una situazione in cui la corsa alla vittoria, con stipendi e costi accessori legati alle commissioni degli agenti, ha creato squilibrio finanziario” aveva ammesso Alessandro Antonello, Corporate CEO dell’Inter) e lo sbattere dei piedi dell’ormai ex presidente della Lega Serie A, Paolo Dal Pino – che quei club rappresentava – per far presente al governo che le società di calcio professionistiche non hanno ricevuto ristori, a differenza di altri ambiti penalizzati dal Covid.

“La sfida per le società è far sì che con una gestione finanziariamente corretta si possano vincere trofei” sintetizza Vanni, che aggiunge: “Ci sta arrivando vicino il Milan e ci è arrivata vicina l’Atalanta, però ancora nessuno ce l’ha fatta davvero. E poi bisogna puntare sugli stadi di proprietà, che se ben gestiti garantiscono un buon flusso di cassa, soprattutto in un periodo in cui “cash is king” e i fondi di investimento lo sanno bene”. Tuttavia questa non può essere l’unica soluzione e occorre molta trasparenza da parte delle squadre e delle amministrazioni locali, affinché queste operazioni non si trasformino in speculazioni immobiliari. “Il vantaggio economico di uno stadio di proprietà – spiega l’autore – può non essere così consistente e il vero motivo per cui queste strutture fanno gola ai proprietari dei club è la possibilità di costruire case e uffici attorno all’impianto con lo sviluppo immobiliare dell’area. Ma questa non può diventare la scusa per edificare oltre misura, facendo prevalere ancora una volta logiche di business a uno sviluppo sostenibile delle città”.

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