A poco più di vent’anni ( 14 dicembre 1995) dagli accordi di Dayton che mettevano fine alla feroce guerra civile che tra il 1992 ed il 1995 aveva letteralmente devastato la Bosnia Erzegovina, si ha l’impressione che lo stato del Paese sia esattamente lo stesso di allora. Con buona pace dei Clinton e degli avventurieri dell’ “interventismo umanitario”, la divisione artificiosa quanto funzionale alle potenze neo-colonialiste d’Occidente della nazione balcanica, ha aperto nuove frontiere allo jihadismo ed alla islamizzazione dell’Europa. La cecità dei governanti di allora, compresi quelli (italiani non esclusi) che ritennero di fare la “cosa giusta” bombardando Belgrado e mettendo il loro sigillo su una vicenda sanguinosa che ancora si trascina, sia pure in maniera non cruenta, determinando incomprensioni, diffidenze e pregiudizi che possono sfociare in qualcosa di simile a quanto sta accadendo nella regione iracheno-siriana, è stata poco indagata e di conseguenza stigmatizzata.
Ci ha pensato a colmare l’incomprensibile deficienza una studiosa di geopolitica di grande livello intellettuale e fornita di una capacità di visione non comune: Jean Toschi Marazzani Visconti con il libro “La porta d’ingresso dell’Islam. Bosnia Erzegovina un Paese ingovernabile”, edito da Zambon. In esso sono raccolte, oltre alle considerazioni inerenti il bilancio della guerra e della pace, anche testimonianze politiche originali che descrivono lo stato in cui o versa il martoriato Paese ridotto nelle condizioni, che giornali e televisioni ignorano, ad una landa percorsa da bande difficilmente arginabili. La responsabilità? Dell’Occidente e dell’Islam radicale, per una volta inconsapevolmente “alleati”.
Quel che è accaduto in Bosnia Erzegovina ovviamente s’inquadra nella strategia adottata per smantellare la Jugoslavia. La “guerra umanitaria” che favorì l’indipendenza degli Stati della Federazione, si accanì singolarmente contro la Serbia, unico presidio alla unità del Paese. Dopo le migliaia di morti e di “esiliati”, la Serbia si è vista sottrarre il Kosovo, cioè la “culla” della sua cultura, dove i miliziani musulmani minacciano gli ultimi residui cristiani che eroicamente sopravvivono. Bisogna andarci e magari vivere qualche giorno con i monaci che abitano ancora gli antichi monasteri, sfidando pericoli mortali, per comprendere che cosa ha fatto l’Occidente è stato quantomeno vergognoso in una regione che era europea ed oggi non si sa più che cos’è.
Nella illuminante prefazione al libro della Toschi, con estrema lucidità, il giovane studioso di geopolitica Paolo Borgognone scrive: “La strategia imperialista adottata dagli USA nei confronti della Jugoslavia fu una ‘procedura’ assai simile a quella che concerneva Washington per quel che concerneva la Russia, messa a dura prova da lunghi anni di militarizzazione della questione cecena e caucasica in generale, di smantellamento delle strutture economiche ed istituzionali di smantellamento dello Stato sovietico e, da ultimo, sottoposta a pressioni internazionali (ossia anglo-americane) finalizzate ad avviare un rinnovato processo di ‘democratizzazione’ interna attraverso l’azione pubblicitaria di ambigui movimenti legati alla ‘società civile’ in espansione, denominata ‘Mink’ devolution (Rivoluzione dei visoni)”. Una rivoluzione della quale poco si è saputo e si sa. A tale riguardo, il giornalista francese, esperto di questioni russe, ha scritto: “La Russia vuole sradicare gli jihadista prima che si rivoltino contro di essa, mentre gli Stati Uniti sperano che alcuni di essi possano essere attivati in altri conflitti, come fu in precedenza nel caso dell’Afghanistan, della Bosnia Erzegovina, della Cecenia e del Kosovo”.
Fantasie? Non proprio, se ci si prende la briga di scavare a fondo in ciò che è avvenuto prima e dopo di Dayton. Come ha fatto Toschi Marazzani descrivendo nla disastrosa condizione condizione bosniaca, dove tre etnie, assolutamente inconciliabili ed in perenne conflitto, detengono il potere attraverso i loro rappresentati, paralizzando di fatto la nazione. Una lucida “strategia del caos”, insomma.
Per quasi cinquant’anni, la Bosnia-Erzegovina, regione più economicamente arretrata della Federazione Socialista delle Repubbliche di Jugoslavia, è stata un esempio di multiculturalismo, una “Jugoslavia in miniatura”, snodo di culture diverse, dove le tre maggiori comunità slave meridionali – la serbo-bosniaca musulmana (oggi chiamata bosgnacca), la serbo-ortodossa e la croato-cattolica – riuscivano a convivere pacificamente. Dopo la proclamazione d’indipendenza, il Paese, dal 1992 al 1995, venne straziato dalla guerra civile trasformandosi in un fronte mostruoso di etnie e fedi contrapposte.
Il conflitto terminò, come detto, con la pace di Dayton, firmata a Parigi da Slobodan Milošević, Franjo Tuđman e Alija Izetbegović, allora presidenti di Serbia, Croazia e dei musulmani di Bosnia, davanti ai maggiori esponenti delle potenze occidentali – NATO, UE, USA. Gli accordi portarono alla divisione dello Stato democratico bosniaco in due entità distinte: una Federazione Croato-Musulmana (per il 51% del territorio) e una Repubblica Serba di Bosnia – Republika Srpska (per il restante 49%).
Il nuovo assetto della Bosnia Erzegovina risultò strumentale essenzialmente alle esigenze degli organismi internazionali, i quali favorirono la creazione di Stati-nazione, a discapito della tradizione, profondamente balcanica, di “Stato culturale”, una singolare ed efficace sintesi tra universalismo imperiale ottomano e particolarismo nazionale occidentale. Parallelamente mancò qualsiasi sforzo per cercare di individuare, comprendere e sostenere i bisogni della popolazione bosniaca nel suo complesso.
A quasi ventun’anni dal trattato di Dayton, la Bosnia Erzegovina versa in una situazione di assoluta incertezza. La ripresa economica dipende esclusivamente dagli aiuti esteri e la macchina amministrativa, controllata da un Alto Rappresentante nominato dall’ONU, non riesce a produrre alcuna continuità di indirizzo governativo, tanto meno alcuna riforma, gravata com’è da una costante rotazione alla presidenza del Paese – esercizio che deve essere garantito a ogni etnia per otto mesi attraverso l’elezione di un suo candidato – e da un composito sistema di approvazione delle leggi.
Oggi la Bosnia vive quindi un fragilissimo equilibrio nel quale s’innestano elementi jihadisti che godono di sostanziale impunità preparandosi alla “guerra di religione” in Europa.
In questo precario equilibrio, la Turchia gioca un ruolo non secondario. L’ex-primo ministro Ahmet Davutoğlu, in occasione della riapertura della moschea di Ferhadija a Banja Luka, disse: «La Turchia è stata qui per lungo tempo, è qui ora, e qui rimarrà per sempre.[…] I musulmani non devono temere perché dietro di loro ci sono oltre 78 milioni di turchi». Ma sono anche “presenze” iraniane e arabo-saudite, finanziatrici di madrasse e moschee a fomentare l’islamizzazione della Bosnia Erzegovina, “porta d’ingresso di un nuovo fondamentalismo religioso”, come dice Toschi, nel cuore dell’Europa, consolidatosi già durante la guerra civile quando migliaia di mujāhidīn (si stimano dalle 18.000 alle 40.000 unità) arrivarono, con armi e denaro, dalle nazioni arabe per combattere accanto ai bosgnacchi non facendo più ritorno nei Paesi natii in almeno 12.000. Viceversa, in questi anni, centinaia sono stati gli arruolati nell’ISIS, in Siria e in Iraq, provenienti dalla Bosnia Erzegovina.
Questo libro della Toschi Marazzani è un’analisi politica lucida e documenta e, nello stesso tempo , un’investigazione sociale attraverso una serie di interviste ad alcune personalità pubbliche della scena bosniaca contemporanea, sia laiche – il generale Giorgio Blais, Direttore del Centro Regionale Ocse di Banja Luka dal 2003 al 2009, l’intellettuale musulmano Dževad Galijašević, i politologi Emil Vlajki (croato) e Nenad Kecmanović (serbo-bosniaco), l’attuale Presidente della Republika Srpska Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska dal 1992 al 1996, Radovan Karadžić, condannato a 40 anni di carcere per crimini contro l’umanità (intervista avvenuta per iscritto con il nulla-osta ricevuto dal carcere olandese di Sheveningen) – sia religiose – il Mufti Edhem Camdžić, il metropolita ortodosso Jeferem, il vescovo cattolico Franjo Komarica, il presidente della comunità ebraica Jacob Danon. Ne viene fuori un quadro allarmante del quale i governanti d’Occidente dovrebbero essere consapevoli invece di mostrarsi drammaticamente distratti.
“La porta d’ingresso dell’Islam” è anche un reportage di viaggio. La Bosnia Erzegovina appare alla Toschi Marazzani, come a qualsiasi viaggiatore, tornata alla normalità, ma non è così: percorrendo le sue strade ci si rende conto che l’odio tra le varie etnie non promette nulla di buono. In questo contesto, l’Islam per molti è l’unica certezza. E guarda ad Occidente.
JEAN TOSCHI MARAZZANI VISCONTI, La porta d’ingresso dell’Islam. Bosnia Erzegovina: un paese ingovernabile, perfezione di Paolo Borgognone, Zambon, pp. 300, 18,00 euro