Pietro Gori, l’anarchico. Della sua vita si parla in questo libro, “Addio Lugano bella”, di Massimo Bucciantini, docente presso l’Università di Siena, dove insegna Storia della scienza.
Pubblicato dalla Casa editrice Einaudi, è questo il terzo ed ultimo saggio di un trittico scritto da Bucciantini. Iniziato con “Campo dei fiori”. Proseguito con “Un Galileo a Milano”.
Nel primo volume Bucciantini racconta le vicende che accompagnarono e seguirono la collocazione della statua di Giordano Bruno in Campo dei Fiori a Roma (1889). Nel secondo scrive della messa in scena al Piccolo Teatro di Milano di “Vita di Galileo”. È un’opera di Bertolt Brecht, che fece scandalo nell’Italia dei primi anni Sessanta (1963).
In questo “Addio Lugano bella”, proprio come puntualizza il sottotitolo, mette gli occhi sulle “storie di ribelli, anarchici e lombrosiani” nell’Italia di fine ottocento.
Due parole vanno subito dette sulla forza che ha la scrittura di questo libro.
Non è mai facile divulgare temi storici, figuriamoci quelli che distano ormai quasi centocinquant’anni da noi, come in questo caso. Quando la magia accade, non è detto che il testo sia anche capace di coinvolgere, appassionare e perché no, emozionare.
Ad un saggio storico in genere non si chiede così tanto, ma è ineludibile che dove non snaturino la personalità dei contenuti, possono rivelarsi caratteristiche utili, anzi utilissime.
La scrittura di Bucciantini sta in questo ragionamento, avvolge, si prende tutto il tempo che gli occorre per raccontare al meglio la storia e le storie che s’intrecciano in questo volume. E, è bene sottolinearlo, lascia parlare i fatti.
Per raccogliere i fatti Bucciantini attinge a svariate fonti: Archivio Centrale dello Stato a Roma, Archivio Federale Svizzero di Berna, Archivio di Stato a Milano, Fondazione Giacomo Feltrinelli sempre a Milano, Archivio Storico dell’Università di Pisa e International Institute of Social History di Amsterdam. Tanto per citarne alcune e per dare un’idea della solida base storiografica sulla quale poggia questo lavoro.
Dicevamo di Pietro Gori, l’anarchico, le vicende della sua vita e di una Nazione nata da poco. Entriamoci con ordine ed in punta di piedi.
Il libro prende spunto da una canzone, “Addio Lugano bella” – per l’appunto – scritta da Gori durante la prigionia nelle carceri di Basilea. Qui, nel gennaio del 1895, viene trasferito da Lugano assieme ad altri compagni. L’accusa è “di essere potenzialmente sovversivi, quindi indesiderabili. Una minaccia per la vita ordinata e tranquilla della città” (pagina XIV del prologo).
Ma la canzone, diventata negli anni simbolo di lotte anarchiche ed operaie, è solo uno dei passaggi di questa storia.
Pietro Gori nasce a Messina da genitori toscani nel 1865. Adolescente si trasferisce con la famiglia a Livorno, e nel 1885 si iscrive alla Facoltà di Legge presso l’Università di Pisa.
Sono anni difficili e turbolenti quelli di fine secolo. Lo dice bene Bucciantini nel primo capitolo. Qui scrive che “in effetti qualcosa si era spezzato nel legame tra padri e figli, tra nuove generazioni e gli eroi del Risorgimento” (pagina 10).
Ed è proprio questa rottura che segna i confini storici, politici e sociali dentro i quali si consuma la vicenda di Pietro Gori.
Pisa era uno snodo fondamentale nella mappa dell’Italia sovversiva. Offriva ferventi passioni ed incessante attivismo a tutti coloro che volevano sposare la causa anarchica.
Non è difficile immaginare che in un siffatto contesto, un giovane “di ingegno svegliato, di carattere audace” come Pietro Gori, potesse facilmente trovare spazio.
In poco tempo diventa uno dei riferimenti più importanti del movimento socialista anarchico italiano. E lo diventa a tal punto che, seppur ancora giovanissimo, già toglie il sonno ai vari Prefetti, Questori e Ministri del tempo.
I primi capitoli sono tutti dedicati proprio a questi fervori iniziali. Tra le vie di Livorno e Pisa, dove maturò le sue posizioni politiche. La laurea in legge. Gli scritti ribelli. La galassia anarchica che iniziava a formarsi. Gli scioperi a fianco degli operai. Processi, condanne ed arresti.
Non c’è dubbio che il “fascicolo Gori” crescesse a vista d’occhio sulle scrivanie preoccupate dei palazzi romani. Ma il salto di qualità, la consacrazione nazionale ed internazionale della sua leadership per taluni, o della sua pericolosità per altri, iniziò nel 1891. Quando si trasferì a Milano, dove divenne capo degli anarchici.
Bucciantini fa partire questa fase dal settimo capitolo, in modo graduale ma deciso.
Sposta Gori dalla Toscana alla Lombardia passando per Capolago, sul lago di Lugano. Qui partecipa al Congresso Internazionalista accanto a Errico Malatesta e Francesco Merlino.
Lo fa arrivare poi a Milano, nello studio legale di Filippo Turati. Sodalizio che fallì mestamente per il suo antiparlamentarismo intransigente. Che mal si accoppiava con il socialismo legalitario di Turati.
Muove Gori negli ambienti operai e contadini del milanese. Poi al Congresso di Genova del 1892 “che segnò la definitiva rottura tra anarchici e socialisti legalitari”. Ne dimostra le eccezionali doti oratorie. Uomo vocato alla politica e totalmente immerso nel suo tempo, sempre dalla parte dei derelitti e dei più deboli.
“Ascoltare una sua conferenza, la recita di una sua poesia, il canto di una sua canzone diventava così uno spettacolo da non perdere. Era politica che diventava teatro, ragionamento che faceva corto circuito con le emozioni e i sentimenti. Musica avvolgente che riusciva a parlare al cuore di gente semplice. Pochi erano coloro che riuscirono a sottrarsi e a restare indifferenti. Era il suono potente della sua voce, e dei gesti e della musica che l’accompagnavano, a catturare e incantare” (pagina 121).
Ci sarebbe ancora molto altro da dire. Nei restanti otto capitoli – in totale sono quindici – non mancano di certo gli argomenti. Tra l’altro taluni anche curiosi, come quello relativo alla prima edizione italiana del “Manifesto del Partito Comunista” tradotta da Gori. Ma liquidata da un contrariato Friedrich Engels, che condizionò i suoi successivi lavori con l’editore italiano al patto che non si aggiungessero “prefazioni di sconosciuti, tipo Gori” (pagina 114).
Oppure, le sezioni importantissime dedicate al duro scontro tra il movimento anarchico ed il Governo Crispi. Che propose al Parlamento, il quale l’approvò, un pacchetto di leggi eccezionali, denominato “Provvedimenti di Pubblica sicurezza”, contro il terrorismo anarchico.
Senza escludere poi tutta la parte dei “lombrosiani”, o quella che invece ci racconta del Gori più maturo, bandito da molti Paesi. In esilio negli Stati Uniti e in Argentina. Fino ad arrivare alla sua morte, l’8 gennaio del 1911, a quarantacinque anni.
Si, ci sarebbe tanto ancora da dire, ma questa recensione finisce qui. Credo che a Pietro Gori serva veramente poco per tirarsi appresso l’interesse del lettore.
Forse, come dice Bucciantini nell’epilogo, Gori fa parte di “un’Italia laica e civile che rischia di essere dimenticata”. E questo è un aspetto che disarma e preoccupa.
Ma è grazie a libri come questo se l’oblio si allontana ed il presente freme. Anche là dove non te lo aspetteresti, nelle pagine di questo lavoro. Quando la storia raccontata stimola ad elaborare inevitabili rimandi all’attualità politica.
A molti questo libro stringerà il cuore. In “Addio Lugano bella” non c’è solo l’Italia di fine ottocento. Ma anche quella delle generazioni a seguire. In quella canzone esse trovarono le parole giuste per denunciare le contraddizioni del loro tempo, che poi, se ci pensiamo bene, sono sempre le stesse, come allora, anche oggi.
Lo dicevamo in apertura, non sempre si chiede ad un saggio di emozionare, ma quando accade, ben venga.
“Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani”, di Massimo Bucciantini, Einaudi, pp. 310, € 30,00.