Mussolini a Claretta Petacci: “Tigretta mia, siamo in fondo all’abisso”

ROMA – Tigretta e Ben sono i nomi dei protagonisti, tutt’altro che di finzione, di un epistolario in uscita il prossimo 15 novembre. Il volume “A Clara”, edito da Mondadori a cura di Elena Aga Rossi, raccoglie i testi integrali del carteggio tra Claretta Petacci e Benito Mussolini.

“Per la giovinezza che m’hai dato, per la fedeltà che mi hai portato, per le torture che hai coraggiosamente sopportato, durante il periodo più nero della storia italiana, io ti amo, come sempre – scriveva il duce a Claretta il 10 ottobre ’43 – Ma prima di parlare di noi, parlo della nostra cara, grande, infelicissima Italia, due volte massacrata e tradita il 25 luglio e l’8 settembre: quale infamia nei capi, re e Badoglio, quale incoscienza nel popolo, quanti tradimenti e viltà nei dirigenti”.

Il riferimento è agli eventi che nella seconda metà del 1943 portarono alla caduta del regime fascista. Oggi, scriveva Mussolini, “siamo inermi. Non abbiamo più un soldato, un aviere, un marinaio. Non un cannone, un fucile, un carro armato, un camion, un velivolo, un bastimento, una uniforme. Non c’è più nulla. Bisogna cominciare dalle fondamenta ed è quello che sto facendo – annunciava – tra difficoltà che puoi facilmente immaginare. Il popolo è demoralizzato, avvilito, immiserito.”

La relazione che risulta dall’epistolario degli ultimi anni è uno stillicidio. Lei gelosa e insoddisfatta, lui sottraendosi si giustificava dicendo di essere debole e malato. Il 17 aprile del 1944, dopo l’ennesima scenata di gelosia Mussolini scriveva: “Perché vogliamo continuare a scambiarci delle lettere agro-dolci, come se fossimo dei diplomatici e della peggiore specie? Io ti ho spiegato perché e come domenica non mi fu possibile di vederti”. L’11 maggio del 1944 si spazientiva: «No, cara, il tono minaccioso del tuo biglietto, non è il miglior passaporto per venire da me stasera, al termine di un pomeriggio che è particolarmente pesante. Nella stanza dello Zodiaco ci si poteva permettere il lusso di litigare perché, alla fine, si aveva il tempo di riconciliarsi: qui questo lusso è severamente vietato”. La storia non ha certo fatto mistero degli incontri frequenti del duce con le sue spasimanti: una al giorno possedute nella stanza del mappamondo.

Nulla da fare, Clara tornava spesso alla carica sempre più furente. A volte il duce la prendeva con “simpatia”, altre volte si arrabbiava. Più spesso ripeteva che l’idea di frequentare altre donne nemmeno gli passava per la testa: si sentiva demotivato, stanco. Confessava di non essere più quello di un tempo: “È caduto, in me, ogni impulso. La mia vita oggi è totalmente casta: nei fatti e anche nei pensieri”.

Non voleva sentire ragioni la Petacci che il 18 febbraio 1945 rispondeva al suo Benito che non aveva potuto riceverla, per via di una visita della moglie in serata. “Non ti vergogni? Non ti vergogni? Un uomo come te ridotto come un miserabile Arcibaldo? (…) E io dovrei ancora morire per te? Sei capace di fare il prepotente e la voce grossa con me che non ti ho mai mancato di rispetto, né reso ridicolo come avresti sempre meritato, per la tua condotta immorale e per il tuo atteggiamento inqualificabile? E vuoi farmi credere che temi tua moglie? E vuoi farmi credere sul serio che tu non hai avuto il coraggio di uscire? Tu che sei passato sul mio cadavere per le tue puttane! (…) Permetti che io ti dica che sei un disgraziato, un autentico disgraziato. Ti disprezzo, ti disprezzo e da questo momento è chiusa nella maniera più definitiva”. Ovviamente non finì: persino quando la loro relazione gli procurò non pochi guai, anche con l’opinione pubblica, come spiega nell’introduzione al volume Elena Aga-Rossi, il duce rimase legato a Claretta fino alla fine in quel famigerato piazzale Loreto.

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