Giampaolo Pansa ha scritto un nuovo libro sulla Resistenza che è certamente destinato a provocare polemiche oltre che a vendere molte copie.
Il libro si intitola:
“Bella Ciao. Controstoria della Resistenza”,
l’editore è Rizzoli e sarà in libreria dal 12 febbraio. In 430 pagine racconta un aspetto della Resistenza che si scosta molto dalla retorica celebrativa di questi quasi 70 anni e costituisce, forse al di là delle intenzioni dell’autore, un documento importante nella ricostruzione dei fatti.
Che la Resistenza alla occupazione nazista sia stata anche, nelle motivazioni di una sua componente, quella comunista, un primo passo verso la rivoluzione e una pietra miliare della lotta di classe è ormai un dato acquisito almeno per una parte di quelli cui queste storie ancora interessano e che leggono la storia con occhi laici e non di parte.
Nella rivoluzione tradita in parte affondano anche le radici del terrorismo degli anni ’70.
Giampaolo Pansa ha ricostruito pezzi di quella rivoluzione tradita, lui che da laureando dedicò la tesi alla lotta partigiana in Liguria e da cronista fu testimone delle fasi più sanguinose del terrorismo.
Il libro è stato presentato da due giornali, con anticipazioni nella edizione di venerdì 7 gennaio di Libero e del Giornale.
La tesi dichiarata delle due presentazioni è che il Pci e i comunisti furono causa di tragici fatti in quegli anni tra il 1943 e il 1945. Non è una novità nemmeno questo, ma l’esposizione fa un certo effetto.
Il titolo del Giornale è
“Così il Pci scatenò il terrore per impadronirsi del Paese”
e quello di Libero:
“Vi racconto le porcate della Resistenza.Terrorismi e uccisioni per le strade. Il volto oscuro della Resistenza”.
Se ci si riflette non è una cosa tanto sorprendente, perché il terrorismo è fra gli elementi costitutivi di tanti Paesi europei, dalla Francia (la Rivoluzione del 1789) all’Inghilterra (la Rivoluzione di Cromwell) all’Irlanda di oggi alla Italia del Risorgimento di Ciro Menotti, Amatore Sciesa, Silvio Pellico, Mazzini e Garibaldi, per non trascurare a Israele, che nella sua nascita fu una appendice dell’Europa.
Sono stati mitizzati e trasformati in eroi, ma per i ben pensanti del loro tempo terroristi erano.
Se poi, nel caso della Resistenza, la rivoluzione fallì, è tanto bene per noi e tanto merito degli accordi di Yalta e della presenza dell’VIII Armata anglo americana in Italia.
Non c’è nulla di inedito nelle tesi di fondo sostenute da Pansa. Inediti sono gli episodi che Pansa racconta, i dettagli che sostengono la sua tesi.
E poi, nel libro di Pansa, o quanto meno nella presentazione che ne fa Libero, c’è qualcosa che forse non era nelle intenzioni dell’autore, ma che va a onore della sua onestà di cronista principe.
Dalle pagine di Libero emergono personaggi della Resistenza di cui chi abita a Genova conosce i nomi per le strade loro dedicate ma la cui grandezza è stata sfumata dalla retorica che ha avvolto le celebrazioni del periodo, due giovani partigiani, Giacomo Buranello e Walter Fillak, personaggi cui il racconto di Pansa conferisce dimensioni tragicamente epiche.
Degno di essere protagonista di una tragedia greca è Giacomo Buranello. Morì pochi giorni prima di compiere 23 anni, per le torture. Non parlò, non tradì esempio di dignità nel Paese dei pentiti. Comunque uno interpreti la storia di quegli anni, non può non ammirare l’eroe. Lo stesso si può dire di Walter Fillak. Aveva 25 anni quando i tedeschi lo impiccarono. Lasciò parole che ancor oggi provocano brividi. Scopriamoli con Giampaolo Pansa.
A Genova il gruppo di Giacomo Buranello, ormai divenuto il Gap della capitale ligure, il 27 novembre 1943 cercò di intervenire in appoggio agli operai meccanici e ai tranvieri scesi in sciopero. L’agitazione era stata indetta dal Pci per adeguare il salario al carovita e ottenere l’aumento della quantità di alcuni generi alimentari tesserati. Ma l’aiuto si limitò a un paio di attentati contro i tralicci dell’alta tensione.
Più pesante fu l’intervento in occasione del nuovo sciopero deciso tra il 16 e il 20 dicembre. Due fascisti vennero uccisi, forse dai Gap o da altri. Per reazione, le autorità repubblicane fucilarono due operai già in carcere perché trovati in possesso di armi mentre tentavano di sabotare dei tram.
La rappresaglia, resa pubblica il 20 dicembre, fece terminare subito l’agitazione. E provocò anche le perplessità di molti scioperanti nei confronti delle azioni gappiste. Si cominciò a dire che la scelta di sparare contro singoli fascisti non valeva il rischio di una rappresaglia. In tanti temevano la reazione dei tedeschi, con l’uccisione di altri detenuti.
Identificato come uno dei responsabili degli attentati ai tralicci, verso la fine di dicembre Buranello fu costretto a raggiungere la banda del Tobbio, dove stava già Fillak. Ma non ci restò per molto. Il 13 gennaio 1944 un terzo sciopero, iniziato dall’Ansaldo Fossati, si estese alle fabbriche del Ponente.
E il partito ordinò a Buranello di ritornare in città dal Tobbio con l’incarico di appoggiare gli scioperanti, mettendo a segno qualche azione clamorosa. L’obiettivo era già stato scelto e questa volta erano i tedeschi che alloggiavano all’Hotel Bristol, in via XX Settembre.
La stessa sera del 13 gennaio, Buranello, Fillak e lo spagnolo Scano spararono contro due ufficiali della Wehrmacht sorpresi per strada accanto all’albergo. Uno morì nella notte, all’ospedale di Quarto. L’altro si salvò, ma rimase menomato.
Nella notte le SS prelevarono dalle carceri di Marassi otto detenuti politici, subito processati e fucilati al forte di San Martino, sulle alture della città.
Anche in Italia cominciava a essere applicata la regola già in vigore dall’agosto 1941 nella Francia occupata dai tedeschi. La norma diceva che tutti i detenuti politici dovevano essere considerati degli ostaggi, da sopprimere dopo ogni attentato. Lo spiega con efficacia il grande scrittore tedesco Ernst Jünger che era stato un capitano della Wehrmacht. Bisogna leggere in proposito Sulla questione degli ostaggi. Parigi, 1941-1942, pubblicato da Guanda nel 2012.
La stessa regola spietata portò alla strage del Passo del Turchino, il 19 maggio 1944. Quattro giorni prima, i Gap avevano fatto esplodere una bomba in un cinema di Genova, l’Odeon, riservato ai tedeschi. Cinque militari morirono e quindici rimasero feriti. Il comando delle SS di Genova prelevò dal carcere di Marassi quarantadue detenuti per attività antifasciste e diciassette partigiani catturati nel rastrellamento della Benedicta.
I cinquantanove ostaggi vennero fucilati al Turchino, a gruppi di sei per volta.
Tornando all’esecuzione del 13 gennaio a Genova, la rappresaglia per l’attentato ai due ufficiali tedeschi ebbe un seguito. La sera del 25 gennaio la questura di Genova condusse una retata di militanti antifascisti già schedati. Gli arrestati, insieme ad altri detenuti politici, per un totale di quarantadue persone, il giorno dopo vennero deportati in Germania, forse nel lager di Dachau. Pochi di loro tornarono a Genova alla fine della guerra.
Buranello tentò di reagire alla fucilazione degli otto detenuti antifascisti. Tra loro c’era anche un suo amico:Dino Bellucci, un professore di 33 anni, insegnante al Convitto nazionale Colombo, che si occupava della stampa clandestina comunista. Gli altri sette erano un tipografo, uno straccivendolo, un tranviere, un giornalaio, un operaio saldatore, un barista e un impiegato.
La sera del 15 gennaio, aiutato da Scano, Buranello scagliò delle bombe a mano contro la Casa del fascio di Sampierdarena. Però non riuscì a fare di più. E non gli restò che riprendere la strada della montagna, sempre in direzione del Tobbio.
Ma il destino lo richiamava in città. Il 26 febbraio il vertice comunista regionale, in previsione del grande sciopero indetto per il 1° marzo nelle fabbriche di Genova, Torino e Milano, chiese al commissario politico dei Gap l’intervento di qualche uomo armato per appoggiare l’agitazione. I Gap erano uno dei bracci armati del Pci. E dunque avevano anche loro un commissario. Nel caso di Genova era Luciano Penello, «Fino», 45 anni, padovano, uno scalpellino che aveva combattuto in Spagna nella Brigata Garibaldi. Dopo la fine della guerra civile, era stato internato in Francia e di lì era finito al confino di Ventotene. Era un pezzo d’uomo, molto dinamico, portato all’attività militare.
Penello spedì a Genova dal Tobbio sei uomini: Buranello, Fillak e altri quattro. Ma lo sciopero fallì subito. Penello ordinò ai sei compagni di ritornare in montagna. L’unico a rifiutarsi fu Giacomo Buranello. Voleva restare in città e tentare qualche colpo clamoroso per infondere coraggio agli operai. Invece la sfortuna, oppure una scarsa attenzione alle regole cospirative che in altre città i Gap si erano dati, decise la sua fine.
La mattina del 2 marzo 1944, mentre stava entrando nel bar Delucchi in via Brigata Liguria insieme a una compagna, Buranello venne riconosciuto da tre agenti della squadra politica della questura, che lo fermarono e gli chiesero di mostrare i documenti. Lui reagì sparando con la rivoltella che portava sempre con sé. Uccise due dei poliziotti, poi fuggì dal bar.
La sua corsa finì subito perché incappò in un’automobile della Guardia nazionale repubblicana con quattro militi a bordo che lo bloccarono senza difficoltà. Condotto in questura, Buranello venne torturato in modo barbaro, anche con la corrente elettrica nei testicoli. Ma non disse nulla sulla struttura dei Gap, sui compagni, sui recapiti. Era un giovane dalla volontà ferrea. E un comandante molto esigente, con se stesso e con gli altri.
Lo conferma Mario Carrassi, che dopo la guerra, ritornato dal lager tedesco di Ebensee, divenne un docente universitario di Fisica. Nell’autunno del 1943, all’età di vent’anni, aveva chiesto a Buranello di entrare nel Pci. In un libro di memorie raccontò il colloquio con lui e le domande che gli vennero rivolte.
Buranello gli chiese: «Se il partito ti domandasse di sacrificare la vita in un’azione in cui la morte è certa, saresti disposto a farlo?». Carrassi narra di aver risposto: «Non so, ma penso di sì. Credo però che vorrei conoscere i motivi dell’azione».
Buranello lo incalzò con un’altra domanda: «Se tu venissi catturato, saresti di certo sottoposto alla tortura. Sei sicuro di resistere e di non rivelare nomi di compagni, fatti, circostanze?».
Carrassi replicò: «Come faccio a saperlo? Non sono mai stato torturato. In questo momento penso che saprei resistere».
Una volta catturato, Giacomo mostrò una resistenza quasi disumana. Un medico, chiamato a visitarlo dopo gli interrogatori, dichiarò che gli avevano devastato il volto e tutto il corpo. Visto che il prigioniero non parlava, si decise di processarlo la stessa sera del 2 marzo. Nell’ufficio del questore Arturo Bigon venne riunito un Tribunale straordinario d’emergenza. Buranello fu condannato a morte e fucilato alle sei del mattino del 3 marzo, al forte di San Giuliano.
Esiste tuttavia un’altra versione della sua fine, raccolta da qualche narratore di sinistra. Giacomo non venne neppure portato dinanzi al plotone perché si uccise gettandosi da una finestra della questura, in un momento di pausa delle torture.
Anche Walter Fillak era destinato a morire. Scampato al disastroso rastrellamento della Benedicta dell’aprile 1944, si trasferì in Piemonte e continuò a combattere. Divenne il comandante della 7ª Divisione Garibaldi, dislocata nella bassa valle d’Aosta e nel Canavesano. Catturato dai tedeschi alla fine del gennaio 1945, fu impiccato il 5 febbraio lungo la strada di Alpette, nei pressi di Cuorgnè..
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