Che sapore hanno i vermi? Come vive la volpe in città? Charles Foster e l’animale che è in noi

di Emiliano Chirchietti
Pubblicato il 19 Ottobre 2017 - 06:34| Aggiornato il 31 Luglio 2019 OLTRE 6 MESI FA

La mia generazione, quella degli over quaranta, ha conosciuto diverse « famiglie ». Erano gli anni ottanta, e « noi », quasi adolescenti, facevamo amicizia con un bambino americano di colore: Arnold. Ammettetelo, solo a pronunciarlo questo nome vi fa stringere il cuore, ma almeno in questo caso, il viaggio a ritroso nel tempo, è un esperienza emozionale positiva.

Quando iniziava Il mio amico Arnold, su Canale 5 o Italia 1, eravamo tutti lì, immobili davanti al televisore, pronti ad « entrare » nella famiglia Drummond per vivere con loro un nuovo episodio. Tale era l’immedesimazione, il coinvolgimento e la partecipazione, che la definizione di spettatori ci andava un po’ stretta.

Non ne eravamo consapevoli, ma stavamo vivendo qualcosa che andava oltre il normale rapporto con il medium per antonomasia di quegli anni; credo di trovare il consenso di molti nell’affermare che almeno per una volta ci siamo sentiti parte di quella famiglia, abbiamo sofferto e gioito quanto loro ed annullato lo spazio che divide la realtà dalla finzione.

Negli anni, di famiglie come quella ne abbiamo conosciute molte: gli esilaranti Jefferson, dove il tema centrale della contrapposizione tra culture diverse veniva filtrato da una buona dose di comicità; Casa Keaton con un giovane Michael J. Fox alle prese con le vicissitudini di una normale famiglia americana post generazione hippy; I Robinson, sitcom che invece proponeva all’attenzione del pubblico importanti tematiche sociali; e queste solo per citarne alcune delle più famose.

Le trame erano ben costruire, gli attori che le interpretavano indimenticabili, ed il successo di pubblico che ne conseguì inevitabile e meritato. Ricordi archiviati nella memoria, che grazie alla « famiglia Foster », conosciuta in questo libro, ho potuto rivivere, con quella giusta misura di nostalgia e leggerezza che serve per nuotare nelle acque, talvolta troppo fredde, del passato. Ma andiamo con ordine.

Charles Foster è l’autore di L’animale che è in noi. Nato in Gran Bretagna nel 1962, si legge nella terza di copertina essere “ scrittore, viaggiatore, veterinario e avvocato ”. Incuriosito ho consultato internet per raccogliere qualche ulteriore informazione: laureato e specializzato a Cambridge, insegna ad Oxford, una bibliografia di tutto rispetto, e questo ultimo lavoro, diventato addirittura best seller del New York Times, oltre ad essere stato tradotto in svariati paesi nel mondo.

In Italia dobbiamo ringraziare la Casa editrice Giunti Bompiani per aver portato nelle librerie questo volume, che a tutti gli effetti, come sostiene anche lo stesso autore, appartiene al genere letterario del nature writing, e cioè di quella scrittura che tratta temi inerenti al mondo naturale.

Non vi nascondo che quando in libreria ho iniziato a toccare questo libro sono stato subito punto dalla zanzara sospettosa dello scetticismo, attirata soprattutto dalla frase con la quale l’autore apre la sua nota introduttiva: “Voglio sapere cosa si prova a essere una creatura selvaggia.”.

Mi sembrava un’affermazione a metà strada tra una provocazione venuta male, ed una smodata ambizione, che nella stragrande maggioranza dei casi si risolve nella delusione che il lettore prova per l’aspettativa non mantenuta. Non mi convinceva. Continuando ugualmente a sfogliarlo, il mio sguardo s’è poi posato sul periodo con in quale avvia il secondo capitolo; vale veramente la pena riportarlo per intero:

Quando te lo metti in bocca, il verme avverte il calore come qualcosa di sinistro. Ti saresti aspettato che tentasse la fuga dirigendosi in basso, nell’oscurità più profonda che di solito significa casa e sicurezza, avviandosi verso il tuo esofago. Ma non è così. Si dirige verso gli interstizi tra i denti. Ce ne sono parecchi tra i miei. Nessuno portava l’apparecchio a Sheffield negli anni settanta. Il verme ristringe il proprio corpo fino a farlo diventare un filo e tenta di insinuarsi in tutta fretta al di là di essi. Se incontra degli ostacoli, per esempio dei costosi ponti dentali, i suoi movimenti si fanno frenetici: si dimena, ruotando vorticosamente un’estremità intorno al centro del corpo, come una centrifuga, sferzandoti le gengive. Alla fine, frustrato, si arriccia nello spazio umido accanto al frenulo e valuta la propria situazione. Se apri di nuovo le labbra si precipita verso l’esterno, premendo la coda contro il pavimento della tua bocca come uno scattista che si slancia dai blocchi.

Questo fa sul serio, ho pensato, scivolando in un’imperdonabile confidenza con l’autore, dettata più dall’emergere di un pacato entusiasmo che dalla cattiva educazione, che comunque non ritroverete in questa recensione. Poi, voltata pagina, mi sono bastate altre frasi, prese a caso, per dissipare definitivamente ogni titubanza ed acquistarlo: I lombrichi sanno di melma e di terra. Sono il cibo locale per eccellenza e, come dicono 1

Queste ed altre informazioni si possono trovare sul sito dell’autore.  Gli appassionati di vino, hanno un terroir molto specifico…I vermi dei Somerset sono scipiti, hanno un sapore fuori moda, di cuoio e di birra scura…I vermi della Piccardia hanno un sapore stantio, di decomposizione e legno sbriciolato…La fanghiglia è diversa da corpo a corpo, ed il suo gusto è misteriosamente variabile.

Di passaggi particolari come questi ne ho trovati molti nel libro, e non poteva essere altrimenti per un saggio che vuol raccontare con accuratezza l’esperienza estrema vissuta da Foster.“ Essere una bestia ” – titolo originale del libro – è la narrazione dell’esperimento con il quale l’autore tenta di avvicinarsi il più possibile al confine che ci divide dalla specie animale, per cercare, come lui stesso afferma, di “…sbirciare al di là di esso…”.

Gli animali selezionati sono cinque, rappresentativi dei quattro antichi elementi del mondo: il tasso (terra), la lontra (acqua), la volpe (fuoco), il cervo nobile (terra) ed i rondoni (aria). Ad ognuno di questi Foster dedica un capitolo, riportandovi, con dovizia di particolari, le sensazioni e gli insegnamenti che l’hanno arricchito nel vivere e vedere il mondo dalla prospettiva di queste creature.

Quello riservato al tasso è il primo con il quale il lettore si confronta. Foster sceglie di rintanarsi, al pari di un tasso, nelle Black Mountains del Galles, dove, aiutato dall’amico Burt e dalla sua scavatrice, ricava nella collina un profondo fossato, che minuziosamente coperto da rami e felci, diventa una tana perfetta dove rifugiarsi.

Foster non è solo; ad accompagnarlo è il figlio Tom, di otto anni, che non si intimidisce quando con il padre inizia a plasmare la «nuova casa», strisciandovi dentro e cercando con le «zampe» posteriori di scalciare fuori la terra. La tana per il tasso, ci racconta Foster, non è solo un luogo dove ripararsi, ma anche lo spazio nel quale vivere, socializzare e morire.

“I crani compaiono tra i materiali di sterro perché i tassi muoiono spesso sottoterra, in seno alle loro famiglie, e sono sepolti lì ” si legge a pagina 46; e non può che colpire questa dimensione sociale e liturgica del tasso, che dopo la morte diventa parte della tana e quindi della vita di chi resta. Padre e figlio non si risparmiano niente. Di giorno dormono nella tana senza mai uscire, fianco a fianco e testa contro piede come fanno i tassi per sfruttare al massimo lo spazio che hanno a disposizione; li imitano esplorando il bosco di notte, muovendosi a quattro zampe con il solo aiuto dell’olfatto; adottano persino la stessa identica alimentazione.

Riferito al figlio Foster scrive: “leccava i lumaconi, sgranocchiò una cavalletta, si ritrovò la lingua morsa da un centopiedi ed il naso invaso dalle formiche, e succhiò lombrichi come spaghetti”.

Non so se Arnold sarebbe arrivato a tanto, ma una sitcom con protagonista una famiglia ambientalista come i Foster, oggi avrebbe un seguito di pubblico rilevante. Questo capitolo ci racconta molto di quello che troveremo nel libro, soprattutto per quanto riguarda l’insolita metodologia della ricerca, ma, forse ancor più importante, ha il merito di comunicare al lettore che non può esserci comprensione intima della natura se prima non ne assumiamo sembianze ed abitudini.

“Per realizzarmi come essere umano dovevo diventare più simile ad un tasso”, recita lo stesso Foster. Nel capitolo sulla lontra questo approccio è ancor più evidente. Foster ci racconta alcune caratteristiche di questo animale che ce lo fanno apparire acuminato, spietato e solitario, impegnato a dormire per diciotto ore al giorno, ed a cacciare freneticamente nelle rimanenti sei, alla ricerca della quantità di cibo sufficiente ad alimentare il suo metabolismo. Se il tasso vive e mappa il mondo circostante con l’olfatto, la lontra è un animale «guancioncentrico» e segna il suo territorio defecando.

Abitudine quest’ultima conosciuta anche dai sei figli di Foster: “Tutte le volte che avete bisogno di farla, andate al fiume e scegliete un posto. Il messaggio deve essere: questa parte del fiume è mia”, invita il padre con l’intento di far imitare ai bambini il comportamento delle lontre europee. Nella famiglia Robinson un approccio ecologista come questo non sarebbe mai stato possibile. Foster non sembra molto empatico con le lontre, ma ugualmente decide di immergersi nelle fredde acque invernali del fiume East Lyn per seguirle, dormire il giorno come loro lungo gli argini, e nuotare nel cuore della notte per scoprire il loro mondo: “… mi tuffai dritto nell’oscurità diluita soltanto dalla luce delle stelle…” (pagina 122 ).

Caccia le lamprede riproducendo la loro tattica, a faccia in giù nell’acqua rivolgendo le pietre con il naso – “… una sanguisuga mi si attaccò al labbro …” (pagina 129) – per poi afferrarle con i polpastrelli delle mani. E non domo, ormai uomo – lontra, le tallona nelle maree possenti del canale di Briston, lungo le spiagge di Dunster dove strofinano divertite i baffi nella risacca.

L’immagine letteraria che ci regala Foster è molto bella: Mi sono reso conto che quell’aria marziale dipende in parte dai baffi. Sono prussiani nella loro bellicosità. Sono i baffi di violazioni dei trattati e confini; di cannoni fumanti ed amputazioni multiple. In altre parole sono lunghi, spessi e rigidi.

La volpe è forse il capitolo più metropolitano del libro. Questa volta a fare da scenario all’esperimento di Foster c’è Londra, precisamente l’East End, ovvero l’estremità orientale della città. “Anche i cani migliori si muovono scomposti e dinoccolati; le volpi scivolano fluide” si legge a pagina 144. Immediata è l’immersione nel mondo delle volpi urbane, con il racconto della prima esperienza vissuta dall’autore, che, in una notte d’ottobre, trovatosi a passeggiare in un parco pubblico, intravedendo due volpi brucare, decide di inginocchiarsi accanto a loro ed iniziare a succhiare con la lingua le tipule che colmavano il terreno.

Anche in questo caso, il metodo utilizzato da Foster, ci aiuta a camminare lungo il sentiero che segna il confine tra uomo ed animale, con l’aggiunta però di alcune soste nelle quattro “ isole delle volpi”, così le definisce l’autore, da dove sentire con più chiarezza lo scorrere delle loro vite. Una zattera di frutta in un vicolo a fianco ad un negozio aperto la notte, il bordo di un tratto di cemento nascosto nel parco, un albero con la sua vita sotterranea, ed un ceppo nel quale si compattano gli odori del tempo passato, sono le quattro isole nelle quali Foster si sottrae al mondo umano per conoscere quello di questi mammiferi, senza però mai essere naufrago.

Le occupa come fanno le volpi, percorrendo cinque chilometri a notte per una durata di ben otto ore, restando in ascolto tendendo le orecchie e muovendo la testa, acquattandosi nel tentativo di scorgere un fruscio o uno squittio di una preda da cacciare, addormentandosi per ore in una siepe ben nascosta nel traffico mattutino, nella smodata voglia diventare come loro; animali innovativi, acuti, empatici, osservatori, tolleranti, un po’ stravaganti, capaci di adattarsi ai cambiamenti e sicuramente orientati verso il futuro.

Tentare di essere un cervo nobile non è un’operazione semplice. Lo stesso Foster ci racconta di quanto sia stato difficile e complesso inseguirli nell’Exmoor, sulle Western Highlands. Ma in questo caso, l’ostacolo più ostico da superare, se lo trova davanti il lettore; perché, seppur già accennato nella nota dell’autore ad inizio libro, in questo capitolo dedicato agli ungulati, veniamo informati da Foster, con novizia di particolari, del suo passato da ex cacciatore, anche di cervi.

Non c’è ombra di dubbio che egli si è redento, e questo è sicuramente un dato che incoraggia, tuttavia, almeno per quanto mi riguarda, il resto delle pagine scritte su questi esseri speciali, l’ho scorse con poca attenzione, interessato di più a dirimere la questione morale che mi si presentava in tutta la sua evidenza.

È comprensibile quindi che si arrivi all’ultimo capitolo, I rondoni, con un pizzico di energia in meno; ed è un vero peccato, perché anche in questa parte conclusiva del libro, Foster, non delude, lanciandosi ad esempio con il paracadute per simulare una discesa in picchiata, o arrampicandosi su alberi molto alti e spogli nel tentativo di mappare le correnti che i rondoni utilizzano per pascolare nell’aria.

Ci sembra di conoscerle le interminabili migrazioni di questi animali, dall’Europa all’Africa occidentale, che lo stesso Foster decide di percorrere per arrivare a capire il mondo che percepiscono queste creature dell’aria.

“I rondoni hanno l’abitudine di volare. Bisogna prendere le abitudini dei rondoni per poter volare” afferma Foster con la frase che chiude il capitolo, e su questo punto vale la pena riflettere. Per quanto mi riguarda, se dovessi decidere quale bestia essere, non avrei molti dubbi: la tartaruga. È un animale che mi affascina da sempre, e per quanto possa apparire folle, sono convinto che possieda una propria coscienza che la porta a vivere con lentezza la sua vita. Ovviamente non ho nessuna prova scientifica di questo, ma come ci spiega Foster, quando afferma ad esempio che i tassi sognano, alcune volte occorrono “ stravaganti gesti di fede ” quando si parla di natura.

Ma in questo libro c’è anche molta ricerca empirica, che aiuta a vivere questa lettura con rigore, seppur alleggerita e resa piacevole dai graditi tocchi di umorismo che l’autore ci regala. Entrare nella «famiglia Foster» è stata un’esperienza molto formativa. Conoscerla, viverla, seguirla ed apprezzarla mi ha aiutato a scandagliare l’infinito universo animale che esiste fuori e forse anche dentro di me.

Domandiamoci cosa significhi essere uomo e cosa essere animale, perché certe riflessioni ci aiutano a superare frontiere che credevamo invalicabili. Certo, contraddizioni e contrapposizioni esistono, ed anche questo libro non risulta esserne escluso, ma l’esplorazione che ci partecipa è un fremito per guardare i nostri coinquilini da una nuova prospettiva. Il tema del mondo come unica famiglia che ci accoglie tutti quanti, uomini ed animali, è il pensiero sottinteso del contributo di Foster; e quando afferma che “i tassi sono filosofi, hanno un concetto di bella vita”, io voglio crederci. Non è sentimentalismo il mio, ma un atto di fede, perché quando mi guardo allo specchio, alcune volte, vedo riflettersi, il muso rugoso di una tartaruga.

L’animale che è in noi di Charles Foster, Giunti Editore / Bompiani, pp. 268, € 17 ,00.