Colpo di Stato, 25 luglio 1943. Sergio Lepri ricostruisce il thriller della notte che cambiò la storia d’Italia

di Sergio Carli
Pubblicato il 11 Ottobre 2018 - 06:47 OLTRE 6 MESI FA
Colpo di Stato, 25 luglio 1943.  Nella foto la copertina che il settimanale americano Time dedicò a Dino Grandi, il cui odg causò la fine del fascismo. Il re se ne servì ma poi affidò il governo a Badoglio. A Mussolini il re aveva detto: Sono l'unico amico che vi è rimasto.

Colpo di Stato, 25 luglio 1943. Sergio Lepri ricostruisce il thriller della notte che cambiò la storia d’Italia. Nella foto la copertina che il settimanale americano Time dedicò a Dino Grandi, il cui odg causò la fine del fascismo. Il re se ne servì ma poi affidò il governo a Badoglio. A Mussolini il re aveva detto: Sono l’unico amico che vi è rimasto.

Il colpo di Stato del 25 luglio 1943 è un saggio di oltre 5 mila parole con cui Sergio Lepri ha festeggiato i suoi 99 anni compiuti. Il 24 settembre è stato il compleanno. In quei giorni è uscito il numero di luglio-settembre della Nuova Antologia, trimestrale di lettere, scienze e arti che si pubblica a Firenze dal 1866. L’articolo di Lepri si intitola semplicemente “Il colpo di Stato del 25 luglio 1943″ e occupa 13 pagine della rivista.

Lo si legge come un thriller. Il ritmo è incalzante. Gli avvenimento lo impongono, ma è anche uno dei passaggi più complessi della storia italiana del Novecento e perdercisi è facile. Si sono lette rievocazioni dove si perdeva il capo e la coda. Nella ricostruzione che fa Lepri degli eventi che precedettero e seguirono la notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 non si perde mai il filo. 

L’inizio scandisce il ritmo:

“«Il momento è arrivato». Sono le sette del mattino di domenica 25 luglio 1943. Da villa Savoia il Ministro della Real Casa Pietro Acquarone ha parlato col re e così telefona a Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale: il momento è arrivato per arrestare Benito Mussolini, capo del governo e duce del fascismo. Il Gran Consiglio è terminato nella notte con la firma a maggioranza dell’ordine del giorno di Dino Grandi con la sfiducia a Mussolini. L’azione di Grandi e le decisioni del Gran Consiglio completano il piano preparato da tempo dal re e dai militari; il verdetto del Gran Consiglio del fascismo offre al re il pretesto costituzionale per la destituzione del Duce”.

Sembra un romanzo di Forsyth ma è storia. Un punto di contatto Sergio Lepri e Frederick Forsyth lo hanno. Forsyth, prima di diventare autore di best-seller mondiali, ha fatto il giornalista per la Reuters. Lepri ha diretto per 30 anni l’agenzia di stampa Ansa. Non è stato solo un grande direttore, che ha trasformato l’Ansa da una appendice di sottogoverno erede della fascista Stefani in una grande struttura di informazione degna del presente (di ieri) italiano. Con la sua tenacia fra Vergine e Bilancia, ha impresso una evoluzione del linguaggio giornalistico italiano, un impasto fra gerghi borbonici e di verbali di questura, come chi ha fatto il mestiere in quegli anni ricorda con orrore. Chi lo fa oggi non può sapere, perché 50 anni di post ’68 hanno anticipato la decrescita felice di Beppe Grillo. L’intoccabilità degli articoli sancita dal Corriere della Sera di Piero Ottone ha contaminato a cascata ormai due generazioni di giornalisti. L’Ansa, in questi quasi 30 anni da quando Lepri ne è uscito, non fa purtroppo eccezione.

Godiamoci invece il piccolo (perché di poche pagine) capolavoro sul 25 luglio. Di quella domenica del 1943 hanno trattato tanti libri di memorie e  ricostruzioni. Lepri mette assieme i pezzi del puzzle, incastra le citazioni, cita le fonti come un grande, onesto cronista. Il passo è quello del narratore di grande caratura:

“Al termine del Gran Consiglio Dino Grandi è uscito da Palazzo Venezia verso le tre per andare a Montecitorio. «Un grande senso di tristezza mi invase» racconta. «Guardai attorno per l’ultima volta quella sala, le pareti e il balcone che Mussolini aveva sempre chiamato orgogliosamente il ponte di comando della nazione. […] Roma, ignara, dormiva. Tutta l’Italia dormiva».

Alle 4 del mattino Grandi, che è presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, incontra, in casa di un amico, il duca Acquarone, in attesa di notizie da riferire al Re Vittorio Emanuele III. Gli “racconta il dibattito al Gran Consiglio, il voto conclusivo e il suo significato: «Il Gran Consiglio è, con una legge sanzionata dal re, l’organo supremo del regime; esso ha dichiarato la dittatura caduta, ha privato il dittatore dei suoi poteri, ha deliberato il ripristino della Costituzione e fa appello al sovrano perché si avvalga di tutte le prerogative che lo statuto attribuisce al Capo dello stato». Ora, conclude, non vi è tempo da perdere”.

Sono le cinque del mattino. Dino Grandi rientra a Montecitorio e il duca Acquarone si reca al Quirinale e di qui a villa Savoia. A villa Savoia Pietro Acquarone parla col re e poi, alle sette, telefona al generale Ambrosio al Quartier generale del Comando supremo in via XX settembre. Che «il momento è arrivato» il generale Ambrosio lo annunzia alle nove anche al maresciallo Badoglio; poi al suo braccio destro, Giuseppe Castellano, il generale che il 2 settembre firmerà a Cassibile il testo dell’armistizio.

Sono ore drammatiche, scandite dalla continua ambiguità del re. Si intrecciano contatti e telefonate fra Acquarone, Ambrosio, Badoglio e Angelo Cerica, comandante generale dei carabinieri. Il re riceverà Mussolini alle 17 a villa Savoia. Castellano racconta: «Acquarone mi chiede: ‘Che cosa facciamo?’. Rispondo: ‘Sua Maestà che cosa ordina?’. ‘Nulla’. ‘Allora decidiamo noi’ concludo io, e vado a casa di Ambrosio.

Ambrosio decide: ‘Arrestiamolo [Mussolini]’. Per Cerica l’ordine è di preparare cinquanta carabinieri a villa Savoia e un’autoambulanza militare. All’uscita dall’udienza: arresto. L’autoambulanza deve sortire da una porta secondaria. 

“Alle cinque in punto – racconta Lepri – l’auto di Mussolini, che è accompagnato dal suo segretario De Cesare, entra dal cancello spalancato di via Salaria. Tre auto con i poliziotti di scorta rimangono fuori. Il re, vestito da maresciallo, è sulla porta della villa. Mussolini è invece in borghese. Nell’interno del vestibolo stazionano due ufficiali”.

Il re e il duce entra nel salotto. Lepri cita Mussolini: «Il re passeggiava su e giù nervosamente, con le mani dietro la schiena e capii subito che era in preda ad estrema agitazione. [I due restano in piedi. Il re si rivolge a Mussolini e gli dice:] ‘Il voto del Gran Consiglio è tremendo. Voi non potete certo illudervi sullo stato d’animo degli italiani contro di voi. In questo momento siete l’uomo più odiato d’Italia: potete contare su un solo amico che avete e che vi rimarrà sempre: io’. […Ancora Mussolini ricorda:]Al termine di questa professione di amicizia, il Re mi accompagnò alla porta e nel salutarmi mi prese con entrambe le mani la destra e me la strinse a lungo, così».

Prosegue la ricostruzione di Sergio Lepri:

“Mussolini se ne va. Scende la scalinata e si avvia verso la sua auto. Accanto all’auto c’è un capitano dei carabinieri, Paolo Vigneri, che, sull’attenti, gli dice, solenne: «Duce, in nome di Sua Maestà il re vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze da parte della folla». Mussolini «allarga le mani nervosamente serrate su una piccola agenda e con tono stanco, quasi implorante, risponde: ‘Ma non c’è bisogno!’. Il suo aspetto è quello d’un uomo moralmente finito, quasi distrutto: ha il colorito del malato e sembra persino più piccolo di statura. ‘Duce – dice il capitano Vigneri – io ho un ordine da eseguire’. ‘Allora, seguitemi’ risponde Mussolini e fa per dirigersi verso la sua macchina. Ma l’ufficiale gli si para dinnanzi: ‘No, Duce, bisogna venire con la mia macchina’. L’ex capo del governo non ribatte altro e si avvia verso l’autoambulanza, col capitano Vigneri alla sua sinistra; segue De Cesare, con a fianco il capitano Aversa. Dinnanzi all’autoambulanza Mussolini ha un attimo di esitazione, ma Vigneri lo prende per il gomito sinistro e lo aiuta a salire. Siede sul sedile di destra. Sono esattamente le ore 17,30. Dopo, sale De Cesare e si mette a sedere di fronte al suo capo. Quando anche i sottufficiali e gli agenti si accingono a montare, il Duce protesta: ‘Anche gli agenti? No!’. Vigneri allarga le braccia come per fargli capire che non c’è nulla da fare e, rivolgendosi deciso ai suoi uomini, ordina: ‘Su ragazzi, presto!’. Anche i due capitani salgono. Nell’autoambulanza ora si è in dieci e si sta stretti”.

Dopo la cronaca dell’arresto del duce, ecco la ricostruzione del complotto, fra la crescente sfiducia nelle sorti della guerra e i tentennamenti del re.

“L’idea di una pace separata è nata in ambienti militari alla fine del 1942 e si è confermata all’inizio di marzo 1943, quando le truppe italo-tedesche erano in ritirata in Africa ed era facile prevedere quale sarebbe stata la conclusione. 

“Il 5 luglio il re riceve il generale Ambrosio, che gli prospetta anche l’opportunità (in Parla Vittorio Emanuele III di P. Puntoni) di una dittatura militare con alla testa il generale Caviglia (81 anni, comandante d’armata durante la prima guerra mondiale) o Pietro Badoglio.

Il re non si mostra entusiasta; è ancora del parere che il fascismo non si possa abbattere di un colpo e che «bisognerebbe modificarlo gradatamente fino a cambiargli fisionomia in quegli aspetti che si sono dimostrati dannosi per il paese»”.

“Il 15 luglio il re riceve Badoglio a villa Savoia. Ufficialmente lo ha visto, l’ultima volta, il 6 marzo, ma qualcuno (la polizia) sostiene che gli incontri sono stati parecchi, nella seconda metà di maggio. Badoglio arrivava a villa Savoia nel tardo pomeriggio, in borghese e in taxi. L’udienza del 15 è stata ufficiale. Negli ultimi giorni sono successe molte cose. Dopo la caduta di Pantelleria e Lampedusa, l’11 giugno, gli Alleati sono sbarcati il 10 luglio in Sicilia. È il primo grande sbarco in Europa.

L’incontro fra il re e Badoglio non porta tuttavia a niente di nuovo. 

Il 21 luglio, il duca Acquarone si incontra con Carmine Senise (in Quando ero capo della polizia, Ruffolo, 1946) e gli dice che il re ha accettato – o quasi – l’idea del colpo di stato e, sia pure con ancora molte perplessità, ha proposto una data: il 26 o il 29. Il lunedì e il giovedì sono i giorni in cui il re riceve abitualmente in udienza al Quirinale il capo del governo. 

Come si spiega la decisione del re? Forse per la notizia, fattagli avere dal sottosegretario agli esteri Bastianini, che si sta cercando di stabilire contatti con gli angloamericani per sondarne intenzioni e disponibilità? oppure la notizia, giunta tre giorni prima al duca Acquarone, che Farinacci, l’esponente dell’ala più radicale del partito fascista, sta tramando per l’accantonamento di Mussolini e il passaggio di tutti i poteri al generale Kesselring, comandante delle armate tedesche in Italia? 

Il 22, giovedì, il re ha ricevuto Mussolini, come al solito. Non si sa bene che cosa si sono detti. 

Domenica 25 e a Roma è una assolata giornata d’estate, fresca di primo mattino, poi calda e afosa. La città è tranquilla e poca la gente nelle strade. Nessuno sa che nella notte si è riunito a Palazzo Venezia il Gran Consiglio del fascismo e nessuno sa che, dopo più di vent’anni, il fascismo sta per morire.

Nessuno però, avverte Sergio Lepri, “ha progetti di un futuro di libertà e di democrazia. Il duca Acquarone continua i suoi contatti politici per garantire la sopravvivenza della monarchia di casa Savoia. Il generale Ambrosio e il Comando supremo non si preoccupano più di possibili sbarchi alleati e studiano i modi per contenere il nuovo nemico che è il tedesco. Il Capo del governo Badoglio finge di continuare la guerra, illudendosi di poter trattare l’armistizio con gli Alleati come potenza ancora combattente. Con questo spirito il generale Castellano viene inviato a Lisbona col compito di esaminare con i rappresentanti inglesi e americani le possibilità di una collaborazione anche militare; torna a Roma con il testo dell’armistizio già redatto e già scritto dai governi alleati: resa senza condizioni.

Dino Grandi si rende conto che non può aspirare a qualche collocazione politica e si trasferisce in Spagna.

Mussolini, detenuto a Ponza, poi alla Maddalena, poi sul Gran Sasso, sarà liberato dai tedeschi il 12 settembre e il 18 sarà con Hitler a Monaco. Il 1° dicembre nascerà la Repubblica Sociale.