Walter Siti (Strega 2013), nuovo libro “Contro l’impegno” non romanziere ma critico: Saviano, Murgia, Carofiglio

di Antonello Piroso *
Pubblicato il 2 Maggio 2021 - 11:45 OLTRE 6 MESI FA
 Walter Siti (Strega 2013), nuovo libro "Contro l'impegno" non romanziere ma critico: Saviano, Murgia, Carofiglio

 Walter Siti (Strega 2013), nuovo libro “Contro l’impegno” non romanziere ma critico: Saviano, Murgia, Carofiglio

 Walter Siti, premio Strega nel 2013, intervistato da Antonello Piroso per La Verità. Ha firmato un nuovo libro: “Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura”.

Non da romanziere ma da critico letterario e saggista. E’ un’invettiva, la sua. Sorniona, elegante, ricca di riferimenti “alti” e “bassi”. Tra una citazione di una canzone di Salmo e YouPorn, un capitolo s’intitola: Le “storie” secondo la tivù generalista, divagazioni su talk show politici, Barbara D’Urso e Gf Vip. Un altro, provocatorio: Le vittime hanno sempre ragione?), ma pur sempre abrasiva. 

Contro chi o cosa? Nientepopodimeno che Contro l’impegno (questo il titolo). 

Prendo a prestito le sue parole: “Mi irrito quando vedo molti critici e scrittori che riducono la letteratura a essere un galoppino per le loro idee. La annegano con certezze consolatorie sulla sua onnipotenza. Mentre la letteratura cambia davvero le cose quando urta contro la propria impotenza. Alleandosi a fondamentali temi umani, trascurati e rimossi.

La depressione, la noia, la convinzione che nulla abbia un senso, il lasciar perdere, il rancore, l’inconcludenza, la stupidera, il basso continuo della miseria umana. Da cui ogni volta le ideologie si dichiarano offese e sorprese”. 

Come nasce l’idea di questo saggio di saggi? 

In principio c’è stata l’idea del libro, col titolo e tutto. Poi è sopraggiunta la voglia di anticiparne qualche pezzetto su una rivista, L’età del ferro, che condirigo. Infine l’urgenza dell’irritazione -da lei ricordata- mi ha spinto a pubblicarne alcuni stralci ancora più piccoli su Domani. 

Entriamo subito in medias res. Uno dei contributi riguarda Roberto Saviano. La intervistai due anni fa in proposito. E s’intitola Preghiere esaudite. Solo che nella versione primigenia continuava con Saviano e l’abdicazione della letteratura. Qui c’è un addendum sul suo ultimo libro, Gridalo, che mi pare una conferma esemplare del vecchio sottotitolo.

All’epoca le spiegavo come fossi consapevole di fare la figura un po’ patetica del letterato vecchio stampo. Ma avvertivo un clima culturale che tende a immiserire la letteratura, confinandola ai compiti o di denuncia o di intrattenimento.

La situazione non è cambiata, anzi. Considerare i testi una “macchina per fabbricare rassicurazione” è tipico di quello che chiamo neo-impegno e mi fa spavento. 

“Contro l’impegno”, quindi “per il disimpegno”?

No, non sono mica matto. Me la prendo con il neo-impegno perché è una versione che bada soprattutto al numero dei fruitori e al bene che può fare nell’immediato. Privilegiando una forma semplificata e temi approvati come “buoni” dall’opinione di una sinistra democratica mainstream.

Ho l’impressione che, anzi, sia proprio il neo-impegno a trovarsi in sintonia con la letteratura disimpegnata e di intrattenimento (guardi ai temi, e al relativo trattamento, delle fiction di RaiUno). Nel libro ci sono parecchi accenni a un impegno capace di profondità e di autocritica. Da Dante e Bertold Brecht fino a Emmanuel Carrère o Bret Easton Ellis. 

Accanto al citato Saviano, ecco Michela Murgia e Gianrico Carofiglio. Considerati tre facce dell’impegno politicamente corretto.

Sono tre scrittori molto diversi tra loro. I primi due tendono a usare la letteratura come arma di lotta (più bellico il primo, più ironica la seconda). Il terzo pensa piuttosto alla letteratura come a un’estensione delle buone pratiche argomentative. 

Cioè?

Assegna alla letteratura il compito di “dire la verità”, e genericamente alle storie quello di “coltivare l’empatia”. Io ritengo invece la letteratura possa spingerci all’odio, degli altri e di noi stessi, e possa arrivare a farci dubitare di qualunque verità. 

Da qui la sua avvertenza: se gli scrittori non vogliono (in quanto intellettuali) che il loro impegno si riduca a una forma di “populismo buono” da opporre al “populismo cattivo”…

Devono fare attenzione a non dare la priorità, nei loro romanzi, a troppi messaggi esortativi e pedagogici. Come ci insegna l’economia, la moneta cattiva finisce per scacciare quella buona.

E così torniamo a Saviano “il pugnace”, il cui ritratto ha un incipit da grande arringa, e da schiaffo ai progressisti. “Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti”. 

Se lui prende le distanze dai letterati che si accontentano di “fare un buon libro”, alla ricerca “del bello stile”, bollandoli come “codardi” -perché dal suo punto di vista non abbastanza (o per nulla) impegnati…A mio avviso contribuisce a dare un’immagine distorta della letteratura.

In più in Saviano la visione manichea, speculare a quella del Potere che lui intende combattere -Potere che punta all’infantilizzazione, alla semplificazione attraverso schemi basic. Lo porta a declinare lo scrivere come categoria bellica, come arma, con la letteratura che emerge e ha dignità solo passando per situazioni estreme.

Ma erano per caso borderline l’impiegato Frank Kafka, la zitella Jane Austen, il Marcel Proust che viveva di rendita?

Si è sottoposto al test del fascistometro della Murgia, e si è ritrovato tra il “democratico incazzato” e il “non ancora abbastanza fascista, ma non più così democratico da organizzarsi per evitarlo”. Il che mi è parso la divertisse.

Ho solo ammesso che mi pareva un profilo di me piuttosto preciso. 

Lei sostiene che Murgia abbia ha scritto il suo libro migliore quando si è cimentata nel romanzo, Accabadora. In sostanza quando ha smesso di considerare anche lei la letteratura un atto di belligeranza o comunque relegata ad un ruolo ancillare nei confronti della militanza politica. 

Michela Murgia sa distinguere tra scrittura polemica e scrittura che scava nell’ignoto. Accabadora mi pare la sua prova migliore perché affronta senza difese un tema che in lei è sempre fertile e inquietante. Quello della maternità stravolta e negata.

“Un tempo a condannare erano i tradizionalisti e gli autocrati, ora sono piuttosto i progressisti, forti di un’egemonia culturale mainstream”. Condanna di cosa, e perchè? 

La letteratura è stata condannata molte volte dall’etica e dalla politica, perché considerata perversa o anarchica. In genere erano i conservatori a emettere la sentenza. Ora sono i democratici che ne hanno paura, perché temono che possa contagiare i bravi cittadini con idee malsane. Come il maschilismo, il razzismo, il fascino della dipendenza sessuale o dell’odio.

Del resto, gli scrittori di sinistra più preoccupati per uno sdoganamento attuale del fascismo in Italia sembrano credere che siano le parole a generare i comportamenti, con il capovolgimento dell’approccio marxiano. Per cui invece le parole sono figlie delle idee partorite dalle condizioni materiali. 

Qual è alla fine il ruolo delle letteratura: far maturare una coscienza civile? Una coscienza tout court? Salvare molte vite? O non piuttosto farle perdere per sempre?

La letteratura può fare molte cose: divertire e educare (spesso allo stesso tempo), creare una coscienza nazionale o storica, allarmare o consolare. Ma la cosa in cui credo di più è aiutarci a conoscere, per pura forza di forma, ciò che sta nascosto e spesso è ignoto all’autore stesso del testo.

Le parole si alleano tra loro, organizzandosi per dire ciò che l’autore stesso non sapeva di voler dire. Io sono un anziano che crede ancora che esista una profondità inconscia, sia personale che sociale. E che la letteratura sia la trappola migliore per farla emergere. Per questo diffido di chi pensa alla letteratura come a un altoparlante per diffondere idee che si conoscono già.

Essere, fare o spacciarsi per scrittore impegnato non mette anche al riparo dalle recensioni negative?

Se io faccio le pulci a un autore engagé sul piano letterario, facile che questi si difenda invocando la propria scomodità sul piano sostanziale, “mi vogliono imbavagliare”, inibendo di fatto il mio libero esercizio di critica.

Naturalmente, tra le varie forme di difesa, c’è anche quella di pensare che chi ti critica sia un ingranaggio della “macchina del fango”. Ma la morte della critica è anteriore a questa fase, deriva dalla fine della competenza come criterio di valutazione. Se la letteratura possono farla tutti, anche il giudizio di valore è affidato alla lotteria del mi piace/non mi piace, o amico/nemico. 

I talk show come lei li racconta non sono inutili anche alla causa dei politici? Cos’ha pensato quando Nicola Zingaretti, poco prima di dimettersi da segretario del Pd, ha elogiato Barbara D’Urso perché lei aveva avvicinato la politica alla gente?

Forse Zingaretti aveva sempre solo guardato la prima ora del programma. Dopo, in ogni puntata, il significato latente dello spettacolo diventava “qualunque argomento deve finire inevitabilmente in vacca”.

E’ il guaio di prendere un’opera d’arte (e uno spettacolo in qualche modo lo è) solo per un frammento invece che giudicarla intera.

Posso dirle che come lei ha trovato il Saviano più autentico solo nelle ultime pagine di Zero zero zero, quando parla di sé, così io ho intravisto il vero Siti nelle considerazioni finali: “Uso il fastidio verso la retorica come pretesto del mio disfattismo. Non si tratta di sentenze, non sono nè in grado nè in vena di lanciare grida di allarme, è solo una piccola rivendicazione corporativa”. Oppure ho preso un abbaglio?

Ha visto bene, in chiusura non ho saputo trattenere un dolore vero: invidio chi riesce a indignarsi per le cose del mondo. Io solo per la letteratura, e per un tipo di letteratura che forse sta scomparendo. 
Scusi, Siti, ma quindi a lei chi gliel’ha fatto fare di impegnarsi così tanto “contro l’impegno”?
Non sono abbastanza bravo da potermene disinteressare.

  • da La Verità