ROMA – Piero Ottone compie 90 anni e li celebra con un bellissimo libro, “Novanta”. Vorrei ai mio modo celebrare, anche se con qualche mese di anticipo, il compleanno, con doppie scuse a Piero e una confidenza quasi intima, ma doverosa. Partirò dalla prefazione di Eugenio Scalfari. Il fondatore de La Repubblica, del libro di Ottone prende un solo spunto: Ottone scrive di sé di considerarsi uno spettatore dell’epoca in cui ha vissuto e lavorato, Eugenio coglie questo pretesto per parlare, come sempre, di se stesso, con toni compiacenti ma in realtà un po’ altezzosi nei riguardi di Piero Ottone. Dice Scalfari che Ottone avrebbe dovuto definirsi quantomeno un testimone, anzi addirittura lo considera autore di una rivoluzione nel giornalismo.
Ed eccoci al punto. In primo luogo, il libro è importante non solo per questo aspetto giornalistico, ma perché racconta – con sommesso e ironico stile britannico, inconsueto dalle nostre parti – capitoli e personaggi di larga parte del Novecento, fino ai nostri giorni. Poi, Ottone dimostra ciò che ha detto sempre – cioè di considerarsi un testimone, raro esempio di giornalismo di vertice proposto (al contrario di Scalfari! e di tanti altri) senza voler cambiare il corso degli eventi o di consigliare comportamenti ai protagonisti. Ecco dunque le mie prime scuse, per un peccato veniale. Ho lavorato qualche anno, da ragazzo, con Ottone – al Secolo XIX di Genova – fu lui a scoprirmi e valorizzarmi temerariamente, nonostante la mia età giovanissima.
E anch’io, come tanti, consideravo questo straordinario maestro all’inizio di una carriera prodigiosa, non solo nel giornalismo. Quando passò, all’inizio degli anni ’70, alla direzione del Corriere, tante volte gli dissi affettuosamente che nel suo futuro ci sarebbe stato un ruolo di ministro, e forse di più, comunque in cima alla scala del potere. Ottone mi rispondeva invariabilmente che non aveva a cuore alcuna carriera di questo tipo, adorava la barca a vela, sognava di avere tempo libero per leggere, scrivere, andare per mare. Parlava con la sua erre moscia e con stile sornione, nessuno gli credeva. Neanche io. E invece così è stato, Piero è rimasto fedele alla sua identità professionale, senza sghiribizzi di Palazzo in testa. Perciò, dopo tanto tempo mi scuso con lui.
Ed eccomi alla confidenza intima, e anche un po’ dolorosa, per un caratteraccio come il mio. Ero legatissimo a Ottone, lo consideravo un eccezionale fratello maggiore; da parte sua, non sbaglio se all’epoca molto probabilmente mi ricambiava con simpatia, come un allievo prediletto. Poi, quando andai a dirigere il Corriere di informazione, qualcosa si ruppe. Fu al momento della mia uscita. Me ne andai bruscamente, infastidito dalle voci sui miei pessimi rapporti, per ragioni politiche, con l’editore Andrea Rizzoli e sulla mia sostituzione con un giornalista, come poi accadde, vicino alla Democrazia cristiana, lontana dalla mia anarchia fisiologica. Molte, troppe malelingue vennero a sussurrarmi che nell’intrigo ci fosse la manina di Piero.
E io, come uno scemo, ci cascai. Dopo di che, non ci siamo mai chiariti: ci siamo incontrati alcune volte, mai una parola. Perché? Per il mio permalosissimo temperamento calabro-ligure, per il suo sacrosanto snobismo, non disgiunto da una superiorità intellettuale. Mai io gli chiesi una spiegazione, mai Piero mi chiese un chiarimento sul mio cambiamento umorale, nei rapporti. Oggi mi scuso, e mi costa: per aver creduto a una sua inverosimile trama ai miei danni, e per i quarant’anni che ho sprecato, anziché coltivare un’amicizia, preziosa, con un uomo acuto e coerente – che mi aveva concesso una benevolenza forse immeritata.