ROMA – Gli editori attaccano Google, adorano Facebook che… e ignorano la tv che… Terzo articolo di una serie di 4.
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Giornali in crisi, questa volta non c’è Giovannini, che come Churchill nel film…
Giovanni Giovannini, dalla Fieg salvò i giornali, da sindacalista conquistò la corta.
La legge dell’editoria voleva espropriare i giornali, portò una pioggia di miliardi.
Di chi la colpa? C’è un senso di confusione. Gli editori italiani attaccano Google che è il loro migliore alleato per la diffusione sul web, adorano Facebook che li vuole morti e ignorano la tv che è la causa prima di tutti i loro mali. In testa a tutte le cause di declino della carta stampata c’è la televisione. Poi viene internet. Ma la Federazione degli editori, dove peraltro Berlusconi, editore anche di carta stampata, è ben rappresentato, se la prende con Google. Google, basta pensarci un attimo, è la condizione di successo dei siti di informazione. Infatti quando in Germania gli editori hanno alzato la voce e Google ha minacciato di non linkarli più, gli editori hanno subito fatto marcia indietro.
La parola chiave è pubblicità e da noi Berlusconi, c’è stato il patto scellerato fra D’Alema e Berlusconi sulla pubblicità, la pubblicità in tv dilaga e la Rai è diventata per anni il rifugio dei giornalisti di tutti i partiti. Poi è venuto quel Mario Monti, osannato dai giornali come “Supermario”, che diede alla Rai la missione di stare sul mercato in modo più aggressivo di Mediset. Catastrofe, editori zitti zitti quatti quatti. È tutto negli atti della Commissione parlamentare di vigilanza ma nessuno sembra saper leggere.
Se c’è qualcuno che deve prendersela con Google sono quelli degli elenchi telefonici, non i giornali. Il vero nemico dei giornali è Facebbok, è il mezzo scritto on line alternativo ai giornali, sviluppa politiche sempre più aggressive che mirano a tagliare fuori i giornali. Se mai l’Antitrust ci guardasse un po’ dentro…E invece editori e giornalisti tutti pazzi per Facebook…Be’, che dire? ve la siete cercata.
Ma indietro nel 1981, i giornali si facevano ancora col piombo fuso e fumante, le tipografie erano caverne di Vulcano, nelle tipografie le più scalcinate operavano decine di operai. In America, nei giornali stretti nella morsa sindacale come a New York, dopo qualche violento scontro e devastazione, l’hanno risolto con lo stipendio a vita. I vecchi operai uscivano ma venivano pagati fino alla morte. Così le nuove tecnologie di composizione poterono entrare nella produzione dei giornali e i costi ridursi drasticamente.
Detto per inciso, gli editori tedeschi, seduti sulla loro ricchezza e paralizzati dal potere sindacale, a suo tempo non ebbero il coraggio di proporre ristrutturazione alcuna ai lavoratori. Oggi in Germania, nonostante un certo contenimento del dilagare televisivo, il tasso di mortalità dei giornali è tra i più alti. Da noi, in un mercato pubblicitario ancora asfittico, aggravato dalla grande crisi degli anni ’70, arrivò in aiuto lo Stato.
Intanto con una pioggia di contributi, direi almeno 150 miliardi, in 5 anni, come contributo carta e come contributo sugli oneri finanziari per gli investimenti in sistemi editoriali e rotative. Poi venne una legge ancora più generosa, nel 1987. Poi la festa è finita un po’ per colpa del rigore europeo, un po’ perché era abbastanza indecente che venissero dati soldi ai giornali perché poi fossero girati ai giornalisti con stipendi degni di un dirigente, un po’ perché il nuovo corso dalemiano vedeva male i giornali, “guardate la tv non leggete i giornali” disse e la politica si adeguò di conseguenza.
Sul piano sociale, la chiave di tutto fu il prepensionamento. Riguardò i poligrafici anche se, con lungimiranza, fu lasciata la porta aperta per i giornalisti. Per i poligrafici, categoria contrattuale che comprende operai e impiegati amministrativi, fu una specie di tombola. Molti erano entrati nel mondo del lavoro subito dopo le medie inferiori, a 14, 15 anni. La legge regalava 5 anni di contributi, per arrivare a 35, a chi ne avesse almeno 30 versati. Fate due righe di conto e vedrete che ti ritrovavi in pensione a meno di 50 anni, come se avessi lavorato per altri 5, con l’aggiunta della integrazione di un fondo pensionistico speciale, il fondo intitolato alla memoria di Fiorenzo Casella, leader della Fieg negli anni ’60. Ora il fondo è in odor di crisi profonda, ma non si deve dimenticare il ruolo svolto né il confronto con gli americani. All’epoca, appena firmati gli accordi sindacali, dei lavoratori restava solo la nuvoletta. Finivano per prendere, fra Inps e Casella, più dello stipendio con straordinari e festività.
Solo i tipografi della Stec di Roma, dove si produceva Repubblica, scioperarono ben 19 giorni per difendere il principio del no. Poi si convinsero anche loro che era un affare. Il primo a firmare, prendere i soldi e andarsene in prepensionamento fu il leader della Cgil che aveva guidato la rivolta.
Di composizione a freddo, cioè di preparazione della matrice di stampa dei giornali non con il piombo ma con l’ausilio di computer si cominciò a parlare negli anni ’60. In Italia aprì la strada il Messaggero Veneto di Udine, guidato da Vittorino Meloni. Fu la prima visita che mi fece fare Giovannini, nel 1974, appena iniziai a lavorare per lui. Ma quello, il Friuli pre terremoto, era un altro mondo.
Appena approvata la legge 416, ne feci buon uso alla Stampa, il primo dei grandi giornali a cambiare tecnologia di composizione. Molto lavoro era stato fatto dal mio predecessore. Fu un lavoro complicato. Convinsi gli operai, ma gli argomenti erano forti, come ho scritto sopra. Per i giornalisti, che negli anni seguenti avrebbero partecipato, in termini di organici e stipendi, alla divisione delle spoglie dei poligrafici, convincerli che il computer sarebbe stata la loro salvezza fu un po’ più complicato. E se non convincevi i giornalisti, mandar via i tipografi non serviva a nulla. Fondamentale fu il contributo di Pierangelo Coscia, caporedattore della Stampa e sostenitore del nuovo corso. Alla Stampa il vento della rivoluzione in quegli anni soffiava forte, la Fiat era il nemico numero uno. Il sindaco comunista di Torino Diego Novelli contava in redazione più di Padre Pio. Sergio Devecchi, cronista sindacale ancora in servizio, doveva piegarsi sotto la scrivania per parlare con l’Ufficio stampa della Fiar senza essere ostracizzato dai suoi colleghi.
Coscia mise a punto un progetto di nuovo layout della redazione più adatto a un laboratorio protetto che a un corpo redazionale. L’azienda comprò l’automobile a tutti. Restava il problema degli accessi via computer alle agenzie di stampa. E se il capo del personale vede sull’Ansa una notizia che può interessare la Fiat e li avverte? mi chiedeva un giornalista che poi a sua volta, la vita è una ruota, ne diventò capo ufficio stampa, dopo aver firmato, 10 anni prima, il manifesto “Vota Pci per una Torino migliore”.
L’azione di Giovannini non si esaurì nella legge. Gli operai avevano paura che ci fosse un eccesso di esuberi e che dopo i prepensionamenti sarebbero venuti i licenziamenti. Giovannini firmò un contratto di lavoro che prevedeva l’eventualità della riduzione dell’orario di lavoro, La clausola fece inferocire Cesare Annibaldi, capo delle relazioni industriali della Fiat. Doveva fronteggiare i metalmeccanici che chiedevano la riduzione dell’orario secondo il dogma lavorare meno per lavorare tutti ma con la stessa paga. Annibaldi incendiò l’ira di Cesare Romiti, che non amava molto Giovannini. Non ci fu processo: Giovannini venne fucilato, virtualmente, sul tamburo e costretto a rinunciare alla carica di presidente, che Agnelli gli aveva lasciato qualche anno prima dopo uno sventato golpe redazionale. Ma questa è un’altra storia.
In quei mesi concitati e caldi del luglio 1982 colloco un esempio della cura affettuosa che Giovannini ha sempre manifestato per i suoi amici. Si era alle strette finali del contratto dei poligrafici. La trattativa era prevista per tutto il fine settimana e mi proponevo di andare da Torino a Roma per dare man forte, anche se non avevo ben chiari i dettagli. Fu la mia salvezza. Giovannini mi distolse dicendomi che nulla di decisivo sarebbe emerso in quel week end e mi dissuase da lasciare Torino. Aveva ben chiaro quello che si prospettava, sapeva che se fossi stato presente o avrei rotto le uova o, più probabilmente, avrei assentito, finendo anche io davanti al plotone di esecuzione.
Degradato sul campo di Torino ma sempre presidente degli editori, Giovannini continuò il suo lavoro alla Fieg e l’intervento a favore dei giornali non si esaurì con la legge 416/81. Venne la legge del 1987. La chiamarono legge Bokassa. I miliardi elargiti dal primo ministro era Bettino Craxi facevano pensare agli scialacqui del dittatore africano. Ma se ci sono ancora tanti giornali oggi in Italia, giusto o non giusto, morale o immorale che fosse, tutto dipende da quelle due leggi lì, quella del 1981 e quella del 1987. Il resto sono pinzillacchere.