Giovanni Giovannini, dalla Fieg salvò i giornali, da sindacalista conquistò la corta

di Marco Benedetto
Pubblicato il 30 Gennaio 2018 - 12:04| Aggiornato il 31 Gennaio 2018 OLTRE 6 MESI FA
Giovanni Giovannini, dalla Fieg salvò i giornali, da sindacalista conquistò la corta

Giovanni Giovannini, dalla Fieg salvò i giornali, da sindacalista conquistò la corta

ROMA – Giovanni Giovannini, dalla Fieg salvò i giornali, da sindacalista conquistò la corta. Secondo articolo di una serie di 4.

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Giovannini, nato a Bibbiena (Arezzo) conservò tutta la vita quel caratteraccio toscano, feroce ma anche profondamente buono, che trovò il suo massimo esemplare in Indro Montanelli e ha il suo livello minimo in Matteo Renzi. Da giovane, in anni di reparti confino alla Fiat, nel giornale della Fiat aveva il coraggio di sfidare Napoleone in persona, cioè il direttore De Benedetti. Mi raccontò questo episodio Sergio Devecchi, altro grande cronista di quella infornata post Liberazione (poi De Benedetti, sfidando un po’ il dogma di Valletta, attinse a piene mani dalle redazioni dell’Unità di Torino e Genova, accademia, allora, di grande professionismo. Achille Pesce, Bruno Marchiaro, chiedete a Giampaolo Pansa o a Carlo Rossella per referenze).

Al tempo la Stampa aveva sede nel cuore di Torino, in Galleria San Federico. I redattori erano poche decine, bastavano due stanzoni, quello per la redazione interni e esteri, uno per la cronaca di Torino. Vennero dopo le pagine dedicate agli spettacoli e all’economia, con Mario Salvatorelli (la Stampa fu la prima in Italia).

Il direttore seguiva gli orari di Hearst. Quello arrivava al giornale di San Francisco da qualche festa o spettacolo all’una di notte e lo rifaceva daccapo. De Benedetti lasciava la sua stanza alle 11 di sera, entrava in tipografia e, affiancato da due operai impaginatori rifaceva tutto daccapo. Le pagine erano poche, per fortuna, ma i tipografi arrivarono a più di cento. Scalfari, genero di De Benedetti, trasferì l’usanza prima all’Espresso poi a Repubblica. I suoi successori hanno aggravato. Tipografi non ce n’è quasi più, ma giornalisti più di cento sì.

Il direttore lavorava in un ufficio sempre buio e senza sedie tranne la sua. Solo una lampada da tavolo. Tutti stavano in piedi e uscivano rinculando. A una certa ora reduce dalla passeggiata di meditazione e ispirazione nei boschi di Rosta, vicino a Rivoli, Napoleone entrava in redazione e faceva il suo giro. Tutti si alzavano in piedi. Una volta lo facevi anche se entrava un estraneo. Oggi anche se entrasse Gesù Cristo manco guarderebbero. Eredità culturale del ’68.

Giovannini anticipò la Rivoluzione culturale. De Benedetti entra nella sala della cronaca. Giovannini sta scrivendo le “brevi di cronaca”, dove erano condensate, per la scarsità di carta, le notizie dalla provincia torinese. A quel tempo, nella provincia di Torino, la Stampa vendeva più di quanto venda oggi in tutto. Giovannini sente che il direttore è entrato ma non si alza. De Benedetti gli va dietro le spalle e dice: “Vedo che abbiamo un nuovo corrispondente dalla Cintura”. “Sì signor direttore”, è la replica. Poi il veleno: “Tranne che da Rivoli”. “E Perché?”. “Perché a Rivoli c’è già lei, signor direttore”.

De Benedetti non poteva amare Giovannini, però non poteva non stimarlo e ammirarlo. Ne fece un grande inviato speciale, lo mando ai quattro angoli della terra. La tv era poca cosa, poche ore in bianco e nero su un solo canale. Congo, India, Giappone, Algeria. Dove c’era una guerra, là De Benedetti mandava Giovannini, che in Algeria finì catturato e condannato a morte dagli estremisti dell’Oas, cavandosela in extremis. “C’era un che di davidico”, mi confidò una volta Giovannini. Re David, per potersela spassare con Betsabea, mando il di lei marito, generalissimo del suo esercito, nel punto più esposto del campo di battaglia, per farlo morire. Per tante ragioni, questo non valeva nel nostro caso…

Un’altra volta, non ricordo se dopo l’avventura algerina o un trionfale viaggio in India per distribuire ai poveri indiani i milioni (di lire) elargiti dal buon cuore dei lettori della Stampa, De Benedetti lo mandò in provincia di Vercelli, dove un gattino era rimasto impigliato su un albero e i pompieri non riuscivano a farlo scendere. A quei tempi non conveniva mettere troppo in ballo ‘a professionalità, rischiavi il licenziamento.

Giovannini fu anche sindacalista e presidente del Circolo della Stampa di Torino. Da sindacalista, negli anni ’60, ottenne per i giornalisti la settimana corta. Sempre di 36 ore settimanali era l’orario, ma divise in 7 ore e un quarto al giorno.

Forse Giovannini sarebbe stato capace di fare evolvere la tradizione di Giulio De Benedetti meglio di Ronchey. Invece toccò prima a Lamberto Sechi col settimanale Panorama e poi a Piero Ottone e soprattutto Eugenio Scalfari.
Ma senza Giovannini editore e presidente degli editori non ci sarebbero state le basi aziendali e economiche per i loro successi.

Diciamo subito che erano altri tempi. La classe politica rispettava i giornali, i magistrati amavano i giornalisti. Non gli davano le notizie ma li assolvevano quasi sempre. Il diritto di cronaca era un diritto. Non c’era ancora Berlusconi che ha sfasciato tutto, né D’Alema che ha pubblicamente esortato a non leggere i giornali, né Renzi, pavido e profondamente ostile.

Senza il quadro di riferimento di allora, forse Giovannini non avrebbe concluso niente, questo va detto a parziale attenuante della Fieg di oggi. Ma Giovannini, come Churchill nel film, iniziò la sua titanica (non esagero) impresa contro tutte le probabilità.