“Dieci anni senza Indro Montanelli”: Michele Brambilla su La Stampa

Pubblicato il 22 Luglio 2011 - 20:30 OLTRE 6 MESI FA

Indro Montanelli (Lapresse)

Non c’è solo l’Indro Montanelli antiberlusconiano, ci ricorda un pezzo di Michele Brambilla su La Stampa che Blitz Quotidiano vi propone come articolo del giorno. Non c’è solo il Montanelli degli ultimi 7 anni di vita, esaltato dalla sinistra italiana accecata dall’odio per Re Silvio. No. C’è il Montanelli gambizzato dalle Brigate Rosse e “innominato” dal Corriere della Sera, c’è il Montanelli odiato dai “rossi” e il Montanelli berlusconiano. Sicuramente non c’è uno di questi Montanelli che sia voltagabbana: lasciò il carro del berlusconismo quando era lanciato verso il trionfo e 60 anni prima lasciò il fascismo all’apice dei consensi, minimizzando i “trionfi” in orbace nei calori della guerra civile spagnola.

Cade oggi il decimo anniversario della morte di Indro Montanelli. E purtroppo per lui le commemorazioni – partite con largo anticipo – vertono quasi tutte su un unico tema: il suo rapporto con Berlusconi dal ’94 in poi. Degli oltre settant’anni di giornalismo di Montanelli – che quando morì aveva 92 anni – se ne considera solo un dieci per cento scarso. […].

Si contesta a Montanelli di aver voltato le spalle a Berlusconi dopo aver detto, per molti anni, che era il miglior editore che un direttore si potesse augurare. I due divorziarono quando il Cavaliere decise di entrare in politica. Aveva tutto il diritto di farlo, così come aveva tutto il diritto di pretendere che il suo Giornale lo appoggiasse. Montanelli lo abbandonò, e per questo gli hanno dato e gli danno dell’ingrato. Ma chi fra i due aveva cambiato il rapporto? Quando parlava di «miglior editore possibile», Montanelli parlava di un Berlusconi che faceva solo l’imprenditore, non il capo di un partito. Fu insomma un divorzio inevitabile e anzi doveroso: non un tradimento.

[…] E in quello scontro aspro la sinistra adottò Indro con una disinvoltura sospetta.

È giusto infatti ricordare che cosa la sinistra – e buona parte della stampa borghese che a quella sinistra si accodò – disse e scrisse di Montanelli negli Anni Settanta, che furono quelli della violenza di piazza, del terrorismo, delle bombe. Quando le Brigate Rosse spararono alle gambe di Montanelli (2 giugno 1977) «soltanto i miei vecchi amici-nemici Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca ebbero il coraggio di manifestarmi la loro solidarietà», raccontò lui in un’intervista nel 1985. Ma in quel giugno 1977 ci si faceva scrupoli perfino a nominarlo, Montanelli. Il Corriere della Sera, giornale che Indro considerava la sua seconda pelle per averci lavorato 35 anni, titolò «I giornalisti nuovo bersaglio della violenza – Le Brigate Rosse rivendicano gli attentati». Il nome del «giornalista nuovo bersaglio» compariva solo nella seconda riga di un sommario scritto con carattere da avvertenze farmaceutiche, e solo dopo il nome di un altro giornalista ferito,Vittorio Bruno del Secolo XIX.

Tutto questo è giusto che sia ricordato. Meno giusto è però considerare la sinistra come un qualcosa di disincarnato e immutabile. Quella di allora, non è quella di oggi. Non c’è più il terrorismo. Non c’è più il comunismo. Montanelli lo sapeva bene e a chi gli rimproverava – dopo la discesa in campo di Berlusconi – di non combattere al suo fianco contro i comunisti, rispondeva: «Io le battaglie le faccio contro i vivi. Non contro i morti».

Si possono avere opinioni diverse, su Montanelli. Ma dargli del voltagabbana vuol dire dimenticare che i voltagabbana sono quelli che, quando cambiano idea, salgono sul carro di chi sta vincendo, non di chi sta perdendo. Montanelli lasciò Berlusconi che stava per diventare presidente del Consiglio per fondare un giornale, La Voce, tanto fragile da morire in culla. Così come quando decise di rompere con il fascismo, ruppe nel momento di maggior consenso del regime. Era il 1937 e da inviato del Messaggero seguiva la guerra civile spagnola. Scrisse che per le truppe italiane la battaglia di Santander non era stata l’epica impresa che il fascismo voleva far credere, ma «una passeggiata con un solo nemico: il caldo». Fu licenziato, radiato dall’Albo dei giornalisti e finì in Estonia a lavorare.