Scalfari mon amour, Pansa e la sua Repubblica. E un po’ di storia di giornalismo

 

giampaolo pansa
Giampaolo Pansa

Il nuovo libro di Giampaolo Pansa sulla “Repubblica di Barbapapà“, cioè di Eugenio Scalfari che la fondò e con il quale Pansa lavorò per molti anni, è presentato con una selezione insolitamente ampia dal sito Dagospia.com.

Protagonista fin dal titolo, “La Repubblica di Barbapapà”, è Eugenio Scalfari, che domina ogni pagina e soprattutto il cuore dell’autore.

Eugenio Scalfari

Come tra padri e figli, la differenza d’età non conta e non contano nemmeno gli anni di lontananza: da parecchio tempo, rivela, si sono “persi di vista”. E così Pansa, che ha 77 anni, conserva per Scalfari, che sta per compierne 89, lo stesso affetto, entusiasta e devoto, che lo sovrastava quando ne avevano 30 di meno.

Anche nelle pagine in cui non compare, nella storia della vita professionale di Pansa prima del suo ingresso a Repubblica, Scalfari è presente, in una specie di annunciazione continua.

Pansa ha avuto più o meno grandi direttori, come Giulio De Benedetti e Alberto Ronchey alla “Stampa“, come Piero Ottone e Franco Di Bella al “Corriere della Sera” o Claudio Rinaldi a “Panorama” e all’ “Espresso“, dove lo ha portato Giovanni Valentini (curiosamente non nomina il suo attuale direttore, Maurizio Belpietro, a “Libero“, come fosse una variabile accidentale della sua vita professionale). Ma Scalfari, e non serve certo Pansa a scoprirlo, è un’altra cosa.

Scalfari è il “Costruttore”, quello che ha fatto, “con il suo gemello Caracciolo“, “Repubblica” dal nulla. E l’ha fatta grande: “Un’impresa titanica”.

“La sorte gli ha permesso di conservare il carattere che ha sempre messo in mostra. Un primo della classe geniale, testardo, autoritario, con un’autostima enorme, convinto di avere sempre ragione al punto di non sopportare chi si azzarda a mettere in dubbio la sua assoluta perspicacia. E quando commette un errore, e sbaglia una previsione, come è accaduto in più di un caso, rimuove tutto senza spiegare nulla.

La stessa marmorea noncuranza mostra nel piegare i fatti, e la loro memoria, a vantaggio di se stesso. Sino al punto di alterare la verità. Gli capita di farlo spesso, confidando sulla smemoratezza di chi lo ascolta pontificare in tv con lentezza regale o legge il suo vangelo domenicale su Repubblica”.

Il prodigio non c’è più

Però, avverte Pansa, “quel prodigio oggi è finito” e lo annuncia fin dal primo capitolo, a pagina 11.

“Però quel prodigio oggi è finito, annientato dalla filosofia del giornale-caserma che pervade la “Repubblica” di questi ultimi anni. Diventata una fortezza inchiodata a un pensiero unico. Dove non vengono ammessi dubbi, dissensi, deviazioni. Le opinioni pubblicate sono tutte uguali e dettate ai lettori senza mai essere messe in discussione. Un errore al quale Scalfari non soltanto non si è opposto, ma che ha contribuito a provocare.

Il risultato è una falange compatta e guerrigliera: il giornale-partito. Questa accusa viene rivolta da anni a “Repubblica”. Accadeva già con la direzione di Scalfari e accade oggi sotto la regia di Mauro. Di questa etichetta a Eugenio non è mai importato nulla. Anzi l’ha rivendicata in un editoriale dell’agosto 2007 nel quale spiegava che le grandi testate sono tali proprio perché sposano una causa politica. Era accaduto così anche nei primi anni del Novecento con il “Corriere della Sera” di Luigi Albertini.

La domanda è se nella temperie attuale, dove nessuno è più certo di nulla, un giornale-partito sia utile al pubblico al quale si rivolge e, più in generale, alla società italiana. Se osserviamo la crisi profonda che investe anche “Repubblica”, la risposta è no. Ma questo è un problema del direttore di oggi e dell’editore. Non di Scalfari.

I lettori di  Repubblica

Barbapapà non si pone questo interrogativo. E non si macera nell’incertezza quando deve spiegare chi siano i lettori di “Repubblica”. Per lui sono una comunità di militanti, cresciuta lottando contro i nemici che, via via, Scalfari indicava: per primo Bettino Craxi e infine Silvio Berlusconi“.

Il libro è una storia di Repubblica, ma anche di un pezzo di giornalismo italiano, senza pretese di cura maniacale del dettaglio o di organicità, è il racconto del principe dei cronisti italiani, dove la vicenda personale di Pansa si intreccia con quella del giornale, del giornalismo e anche dell’Italia contemporanea. Ma sempre da testimone oculare: ove non ha visto con i suoi occhi o sentito con le sue orecchie non riporta, e forse per questo la tormentata vicenda della vendita a Rizzoli da parte dei tre soci del Corriere, Crespi, Agnelli, Moratti, è piuttosto sintetica.

Il racconto è fatto da un cronista che riesce a uscire dal particolare dei singoli episodi e ricucendoli ne trae un grande affresco. Qui forse è la differenza tra Pansa, che è di Casale Monferrato, e Ezio Mauro, che è di Dronero (Cuneo). Mauro non ha fatto il salto da grande cronista a storico, ma è diventato direttore e questo è il cruccio latente che serpeggia nel libro.

I terroni di Giorgio Bocca

C’è poi un terzo grande del giornalismo italiano, Giorgio Bocca, di Cuneo, e questo passo dà un’idea dello spirito piemontese che domina.

“Un giorno Bocca mi disse, con il suo stile ruvido: “Pansa, non capisci un cazzo. Scalfari e De Mita sono due terroni, pronti a darsi un a mano!”. Gli replicai: “Giorgio, tu dei cuneese e io monferrino, eppure non andiamo d’accordo quasi su niente!”. Lui alzò le spalle: “Noi piemontesi siamo diversi dai meridionali. La nostra specialità è litigare sempre”.

Scalfari no, lui non è piemontese, anche se ha sposato una piemontese, Simonetta De Benedetti, figlia del grande Giulio , però, dal punto di vista professionale, è le due cose assieme: grande scrittore e grande direttore. E anche grande stratega editoriale.

Ci fu qualcosa di messianico nel primo incontro di Pansa con Scalfari:

«Non verresti a lavorare con me a “Repubblica”?» mi domandò Eugenio Scalfari.

La mia risposta fu senza esitazioni: «Ti ringrazio per l’invito, ma devo dirti di no».

«Perché no?» chiese ancora Eugenio.

Questa seconda domanda mi creò un po’ d’imbarazzo. Avrei dovuto ribattergli con una spiegazione che non avevo voglia di offrire. E mi nascosi dicendo: «Ho un patto di lealtà con Piero Ottone. Gli ho promesso che resterò con lui al “Corriere della Sera”. Me ne andrò soltanto quando Piero si dimetterà».

Era il 2 giugno 1975.

“Mi trovavo di fronte al padreterno di via Po, la storica sede dell'”Espresso” a Roma. Scalfari aveva 51 anni, undici più di me. E mi fece un’impressione eccellente, per usare un aggettivo che per Eugenio riassumeva il massimo del giudizio positivo. Ieratico, fervido, sicuro di sé, assolutamente tranquillo nella riuscita dell’impresa che stava progettando.

Chissà perché, mi obbligò a pensare a un nuovo Cristoforo Colombo impegnato ad arruolare l’equipaggio per una caravella, anziché per tre. Purtroppo a non convincermi era proprio lui, il capitano di un altro viaggio verso l’ignoto.

C’erano troppi lati di Scalfari che suscitavano la mia diffidenza. Nel 1968 il Partito socialista, portandolo a Montecitorio, lo aveva salvato dai guai giudiziari legati all’inchiesta dell'”Espresso” sul presunto tentativo di colpo di Stato del Sifar, il servizio segreto delle forze armate. Per un caso voluto dalla sorte, quella era stata la prima legislatura di un altro deputato socialista che in seguito sarebbe diventato il bersaglio di una violenta guerra politica di Scalfari: Bettino Craxi.

Bettino Craxi

Bettino aveva dieci anni meno di Eugenio. E i due, eletti entrambi nella circoscrizione Milano-Pavia, non erano fatti per andare d’accordo. Nella minuziosa biografia di Massimo Pini dedicata al leader socialista e pubblicata da Mondadori, si legge un giudizio asprigno di Craxi sullo Scalfari conosciuto in campagna elettorale: «Eugenio è un geniaccio con un carattere fragile, instabile. Se oltre ai salotti avesse frequentato anche qualche sezione di partito, se avesse alternato i colloqui con esponenti della finanza a qualche incontro con gli operai, be’, direi che non gli avrebbe fatto male»

Da deputato milanese, Scalfari si era gettato tutto a un sinistra, diventando un sostenitore del Movimento studentesco che dopo il Sessantotto dominava la piazza. Le assemblee alla Statale lo vedevano spesso tra i vip che assistevano a quei riti.

C’è una suggestiva fotografia scattata da Massimo Vitali che ritrae Eugenio in un’assemblea nell’aula magna dell’università. E in piedi e sta fumando. Accanto a lui c’è la sua spalla abituale: Giuseppe Turani, detto Peppino, piccoletto e occhialino, giornalista esperto di questioni economiche.

La fotografia risale al gennaio 1970, forse scattata nel pomeriggio che vidi Eugenio per la prima volta. Durante un corteo del Movimento che marciava “contro la repressione” messa in atto dal secondo governo del democristiano Mariano Rumor, a danno degli studenti che sognavano la rivoluzione. Era soltanto una mossa di pura propaganda, poiché il pio Rumor non appariva assolutamente in grado di reprimere alcunché.

Eugenio, forse in cerca di popolarità, era tra i vip che guidavano il corteo, mentre io, da inviato a Milano della “Stampa” di Alberto Ronchey, mi ero sistemato sul fronte opposto, quello della polizia. Non impugnavo un manganello, ma soltanto la biro e un taccuino. E mi limitavo a osservare quanto poteva accadere, accucciato alle spalle del vicequestore Luigi Vittoria, un funzionario per niente bellicoso, incaricato di ordinare la carica dopo aver indossato la fascia tricolore”.

Di quel primo contatto visivo non rammento quasi nulla. Non ricordo neppure se la carica ci fu. A restarmi impressa fu soltanto la figura di Eugenio. Era bello, aitante, ancora senza barba e si difendeva dal freddo con un magnifico tre quarti di montone”.

Tra Scalfari e Caracciolo

Un anno dopo ci fu l’incontro con Carlo Caracciolo, che non riuscì, al momento, a convincere Pansa, ma si rivelò profeta, sia per Pansa sia per Repubblica:

 “Quel giorno d’estate del 1976, Caracciolo mi accolse con calda cordialità, pregandomi di accompagnarlo in una breve passeggiata nei dintorni della villa. Durante la lenta camminata, mi domandò di raccontargli del “Corriere” e di Ottone.

Gli regalai qualche banalità che di certo doveva conoscere meglio di me: le difficoltà finanziarie di Angelo Rizzoli junior, nostro editore da un paio d’anni, il sindacalismo esasperato di una parte della redazione, l’abilità di Ottone nel non lasciarsi imprigionare troppo dai tanti ostacoli che incontrava ogni giorno.

Il Principe osservò: «Piero è davvero bravo. L’unico che lo batte è Eugenio. Prima o poi, finiranno con il lavorare assieme».

Poi volle sapere in che modo ero riuscito a strappare a Enrico Berlinguer quelle battute sul Patto di Varsavia e sulla Nato. Mentre nell’intervista a Fausto De Luca di “Repubblica” il segretario del Pci non aveva detto nulla di memorabile. Quindi aggiunse: «Eugenio si è incazzato a morte perché Berlinguer ha scelto di parlare schietto al “Corriere” invece che a “Repubblica”. E immagina congiure e trame a non finire, ai suoi danni e per avversione al nostro giornale appena nato…».

Mi misi a ridere e risposi: «E inutile che Scalfari, e forse anche tu, cerchiate di catturare le mosche con le chiappe. Non c’è stato alcun complotto e non è intervenuto nessun potere segreto. Avevo appena concluso la mia inchiesta sul Pci. E tanto Ottone che io pensammo che si doveva intervistare il segretario comunista.

L’intervista a Berlinguer

Insieme abbiamo steso le domande e io le ho portate alla governante di Berlinguer, l’occhiuto Tonino Tatò. Dopo un giorno, Tatò mi ha chiamato: Enrico ha deciso di dare l’intervista al “Corriere”. E vuole che sia tu a farla, per rimediare alle balle che hai scritto nei quattro interminabili articoli sul partito… Tutto qui».

Caracciolo osservò: «Me la racconti troppo semplice. E non ti credo!». Alzai le spalle: «È andata esattamente così. Non so che altro dirti. Ma dovresti rammentare che la mia intervista a Berlinguer è uscita qualche giorno prima delle elezioni politiche di questo giugno. Il segretario del Pci aveva bisogno di dire certe cose a un pubblico più vasto di quello del vostro giornale. E ha scelto il “Corriere”. Eugenio non perda tempo a incavolarsi!».

«Già, parliamo dei lettori di “Repubblica”» mi propose Caracciolo. «Oggi sono ancora pochi, ma presto cresceranno. Se è questo il motivo che un anno fa ti ha spinto a rifiutare l’invito di Eugenio, hai sbagliato…»

Interruppi Caracciolo: «Ho detto di no per altre ragioni» e mi decisi a spiegargli per bene l’insieme di dubbi e dissensi che mi avevano fermato. Lui mi lasciò parlare a lungo, poi si limitò a osservare: «Hai ragione, quel manifesto contro Calabresi è stata una vera carognata. Ti rammento che, a differenza di Eugenio, io mi sono ben guardato dal firmarlo. Ma non potevo né volevo bloccare l’iniziativa dell'”Espresso”. Ho sempre pensato che gli editori non debbono mai sovrapporsi ai direttori. O li lasciano fare oppure li cacciano su due piedi».

Comunque, il Principe se ne infischiava dei miei fastidi nei riguardi di Scalfari, della Cederna e dell'”Espresso”. Adesso gli premeva soltanto “Repubblica”. Mi disse: «Un giornalista come te deve lavorare con Eugenio. Lascia perdere i quotidiani dove sei stato fino a oggi. Loro appartengono al passato, mentre noi siamo il futuro. Ma per affermarci abbiamo bisogno di gente con una buona esperienza professionale. Tu fai al caso nostro. Il tuo lavoro da inviato verrà riconosciuto senza avarizia. E avrai un compenso più alto di quello che ti passano Rizzoli e Ottone.

Repubblica, il giornale del tuo futuro

«Noi siamo il giornale giusto per te» continuò Caracciolo. «Dopo le prime fatali difficoltà, “Repubblica” si assesterà e diventerà sempre più forte. Per tanti motivi, ma soprattutto per due. Ha un direttore unico in Italia, il più bravo in assoluto: Eugenio. E un editore fortunato: io. Forse tu non lo sai, ma la fortuna mi è stata sempre amica. Con i giornali e con le donne.»

Gli replicai ridendo: «Mia nonna Caterina avrebbe detto: fortuna in amore, disgrazia negli affari. O viceversa».

Caracciolo alzò le spalle: «Tua nonna si sbagliava. I mia storia personale la smentisce. Dammi retta: vieni con noi a “Repubblica”. Diventerà il primo giornale italiano. E tu farai un’esperienza unica. Persino litigare con Eugenio risulterà appassionante».

Un simpatico figlio di buona donna, il Principe. E un padrone che sapeva essere molto convincente. Infatti, l’anno successivo mi arruolai nella banda di Scalfari. Ma prima mi ero trovato immerso in altre faccende professionali. Il prologo necessario al mio arrivo in quel giornale rifiutato per due volte”.

La storia di Repubblica si sviluppa per più di 300 pagine, con la tecnica del grande racconto, inclusi flash back e deviazioni laterali. Vi entrano personaggi che appartengono al presente, come Ezio Mauro, e al passato dell’editoria italiana: l’incontro con Ferdinando Perrone, comproprietario del “Messaggero”, che annuncia a Pansa la vendita della propria quota a Edilio Rusconi (alla fine comprerà tutto la Montedison e poi Caltagirone); i due colloqui con Berlusconi, il primo una reprimenda il secondo una offerta di lavoro.

L’assassinio di Tobagi

Poi l’assassinio di Walter Tobagi e la scoperta che per un puro caso non era toccato proprio a lui, Pansa, di finire sotto il piombo di un gruppetto di ragazzi di buona famiglia della sinistra intellettuale milanese, col pentimento già in tasca; Montanelli, al quale non perdona di essere diventato “un eroe per la sinistra che lo aveva sempre odiato” per essersi messo contro Berlusconi.

Una pagina è dedicata a Marco Benedetto, che all’epoca del ritorno di Pansa a “Repubblica” dopo dieci anni come condirettore dell’ “Espresso”, era amministratore delegato del Gruppo editoriale.

 “L’avevo conosciuto a Genova, la sua città, nel 1974 durante il sequestro del magistrato Mario Sossi. Rapito dalle Brigate rosse il 18 aprile e rilasciato il 23 maggio dopo una via crucis di trattative sempre fallite.

“In quel tempo ero uno degli inviati del “Corriere del­la Sera” e venni subito spedito a Genova dove rimasi per tutti i giorni del sequestro. Benedetto aveva 29 anni ed era un esperto redattore dell’ Ansa, piccolo di statura e con un fisico compatto, lo chiamavamo il Mastino.

Benedetto non era soltanto un mastino, bensì un manager molto accorto, un capo azienda insuperabi­le, la roccia del gruppo. Aveva ben chiara in mente una verità che provo a riassumere così. Se un giornale è monocorde e canta sempre una sola canzone senza cambiarla mai o accompagnarla a un motivo diverso, non può avere una gran fortuna. Le forti tirature si reggono su un complesso di lettori molto diversificato. Un direttore non deve pensare soltanto alla maggioranza dei suoi clienti, è bene che si occupi anche delle minoranze”.

Scalfari domina il racconto: i suoi rapporti con Craxi, senza particolari rivelazioni, con Pertini, con De Mita, con i comunisti.

Scalfari era come un figlio per Sandro Pertini

“Pertini era capace di lunghi rancori che non si attenuavano mai. Non dimenticava uno sgarbo ricevuto e cercava sempre di vendicarsi mi chi l’aveva offeso.

La sua specialità erano le collere improvvise che tal volta lo spingevano a gesti non meditati. A un ministro che recitava distratto la formula del giuramento, sparò un antico insulto genovese: «Dice il Paternoster come le scimmie».

“Chi non lo voleva presidente, e come vedremo fra questi c’era Craxi, giocò la carta che appariva più facile: Pertini risultava troppo vecchio per un incarico tanto pesante.

“Un giorno, era il 29 giugno, mi portò in un angolo del Transatlantico e affrontò la faccenda spinosa dell’età.

“Mi confidò: «Qui vedo in giro dei sessantenni che sembrano usciti dalla tomba. Invece io ho preso da mia madre. Vai a Stella Ligure, in provincia di Savona, e chiedi che donna era. Aveva la casa occupata dai tedeschi e lei gli diceva: attenti che verrà Sandro e vi farà fuori tutti! E’ morta a 90 anni, ma soltanto perché è ca­duta dalla sedia. Un mio fratello è andato al Creatore che ne aveva 95, era un vecchio lupo di mare e fino all’ultimo si è conservato lucidissimo!».

“Ma Pertini piaceva poco al vertice del Psi per un’al­tra ragione: era stato messo in pista dai comunisti. Lo aveva deciso Berlinguer che considerava il compagno Sandro un uomo leale, un antifascista coerente e so­prattutto non legato al carro di Craxi.

“Scalfari decise subito di sostenere Pertini. Confesso che allora non mi chiesi il perché. Stavo nella squadra degli inviati di “Repubblica” che seguivano la corsa al Quirinale. Sapevo bene che la linea del giornale la stabiliva soltanto Eugenio e nessun altro.

“Il rapporto tra Pertini e Scalfari era molto stretto e credo fosse nato nei giorni terribili del sequestro di Moro. Pertini era uno dei pochi vip socialisti che non approvavano la po­sizione di Bettino a favore della trattativa con le Brigate rosse. Ma soprattutto il vecchio Sandro condannava il comportamento del leader democristiano nel carcere-” del popolo.

Pertini asserragliato in redazione a Repubblica

“Ce lo raccontò Scalfari dopo averlo appreso da lui, durante una colazione nelle stanze presidenziali.

“Pertini non perdonava a Moro di aver scritto dal car­cere del popolo tante lettere chiedendo di essere sal­vato. Per di più gli sembrava indecente che il leader democristiano si fosse ridotto a fare da portavoce dei terroristi che lo tenevano prigioniero. E avevano am­mazzato la sua scorta.

“Il presidente spiegò a Eugenio: «Noi antifascisti finiti in galera non ci saremmo mai comportati così. E sai perché? Noi siamo laici, non crediamo in Dio e nella vita eterna. L’unico patrimonio che abbiamo è il rispet­to per se stessi. Nessuno di noi ha mai chiesto la grazia a Mussolini. Ma di quale pasta era fatto Moro? Lui si umiliava a domandare la liberazione dei brigatisti dete­nuti, pur di avere salva la vita!».

“Nell’incessante guerriglia contro Craxi, Scalfari ave­va segnato un altro punto a proprio favore: l’amicizia con il capo dello Stato. Ma Pertini era un tipo d’uomo che poteva diventare ingombrante. Come capita a pa­recchi signori anziani, non aveva nessuna remora nel dichiarare chi gli era amico e chi no.

“Raccontava a tutti del suo rapporto affettuoso con Eugenio. Gli telefonava a metà mattina, quando era in corso la riunione con i redattori. Ordinava a Scalfa­ri: «Metti il vivavoce». E pretendeva di partecipare al dibattito sul numero che stavamo preparando. Penso che considerasse Eugenio un figlio adottivo, pronto a rispondere al richiamo del padre.

“Me ne resi conto all’inizio del giugno 1985. Al Quiri­nale c’era stato un pranzo tra Pertini e una delegazione del vertice comunista. La guidava Alessandro Natta, il successore di Berlinguer scomparso l’anno precedente. Al levar delle mense, usando mille cautele, Natta co­municò a Pertini che, dopo la scadenza imminente del mandato presidenziale, il Pei non l’avrebbe votato una seconda volta. Il vecchio Sandro non si aspettava questa pessima sorpresa. Mezzo mondo sapeva che sperava di rimanere sul Colle per un altro settennato.

“Licenziata la delegazione comunista, Pertini si pre­cipitò di corsa a “Repubblica”. Era infuriato e cercava Eugenio per informarlo della pugnalata ricevuta dai comunisti. Ma Scalfari stava in viaggio verso Parigi e nella redazione deserta per la pausa del pranzo, il presidente trovò soltanto me.

“Mi trascinò nella stanza del direttore. Chiuse a chiave la porta, si sistemò sulla poltrona di Scalfari e mi ordinò di sedere di fronte a lui. Intimandomi: «Non muoverti, non parlare. Prendi questo telefono, rintraccia Eugenio e digli di venire subito qui».

“Passai tre ore d’inferno. Pertini urlava che i comunisti l’avevano tradito e pretendeva che Scalfari si presentasse subito al giornale: «Soltanto lui mi può aiutare!». Fuori dall’ufficio sostavano i funzionari del cerimoniale e il capo della sicurezza presidenziale, sbalorditi e in preda a una strizza boia. Alla fine, il presidente ritrovò un po’ di calma. E si decise a rientrare al Quirinale lasciandomi in libertà.

La passione di Scalfari per De Mita

De Mita.

“La passione di Eugenio per Ciriaco si fondava su tre pilastri. Il primo era la convinzione, o l’illusione, che De Mita fosse l’unico leader democristiano in grado di rinnovare le polverose istituzioni italiane e di rendere il nostro paese “uguale alla Svizzera”.

“Il secondo pilastro lo descrisse De Benedetti nel suo colloquio con Rampini: «Credo che Eugenio fosse lu­singato dall’idea di poter influenzare politicamente il capo della De. Mentre a De Mita piaceva dimostrare ai suoi amici-nemici della De di avere una stretta relazione con un giornale laico e liberal come “Repubblica”. Era anche un modo per affermare il proprio potere e la sua diversità».

“Il terzo bastione dell’amicizia fra loro era la comune origine meridionale. Ciriaco era avellinese ossia campa­no, Eugenio veniva da una famiglia calabrese. Quando entrano in gioco le radici, tutto diventa opinabile. Ma erano in molti a pensare che fossero nati per intendersi”,

Dal racconto del rapporto di Repubblica con De Mita manca un pezzo importante, che forse sfuggì a Pansa nella concitazione della guerra di Segrate. Furono De Mita e i suoi della sinistra democristiana a forzare la mano a Andreotti, imponendo la legge Mammì sui rapporti tra tv e giornali che, per quanto edulcorata negli anni tra Corte costituzionale e nuove leggi, ancora è baluardo all’invasione di Berlusconi nel mondo dei giornali.

Per ottenere questo si dimisero da ministro vari esponenti democristiani, cosa che per un politico è dolorosa assai. E uno di loro, Sergio Mattarella, finì sulla lista nera di Berlusconi al punto che, quasi vent’anni dopo, mise il veto alla sua nomina a vice presidente del Csm, tanto gli bruciava ancora.

Berlusconi a Berlinguer: “Visto che gnocche?”

Sui rapporti con i comunisti ci sono molte, avvincenti, pagine sul complesso atteggiamento del Pci e delle sue mutazioni nei confronti di “Repubblica” all’epoca di Scalfari, prima della mutazione in giornale fiancheggiatore. Ma la pagina più divertente, a proposito dei comunisti, non riguarda Scalfari, ma Berlusconi: è il racconto che Pansa fa, come testimone oculare, della visita del segretario del Pci, Enrico Berlinguer, a Canale 5, “hostess” lo stesso Silvio Berlusconi:

“Durante la campagna elettorale del 1983 negli studi televisivi di Canale 5, era stata programma­ta una serie di interviste e mi era stato chiesto di interrogare i due leader della sinistra, Berlinguer e Craxi.

“Berlinguer aveva un’espressione malinconica, mentre Berlusconi sprizza­va felicità nell’illustrare le meraviglie elettroniche della sua tv. A un certo punto il Cavaliere strillò: «Onore­vole, adesso diamo un’occhiata a un po’ di ragazze!». I mostrò al capo del Pei le scenografie approntate per una commedia musicale, My fair lady.

“Nei televisori apparve una sfilata di ballerine mezze nude. Silvio esultava: «Ha visto che gnocche, segreta­rio! Le ragazze svestite fanno sempre alzare l’audience di un programma e non soltanto quello!». Berlinguer non aprì bocca. Ma la sua faccia parlava per lui e diven­ni sempre più grigia”.

La guerra di Segrate

La storia di “Repubblica” è completa, non manca la vicenda nota come la Guerra di Segrate, iniziata nell’aprile dell’89 con la vendita dell’Espresso, che includeva mezza Repubblica alla Mondadori in cui dominava Carlo De Benedetti e conclusasi due anni dopo, con la divisione fra la Mondadori dominata da Berlusconi e il grande Espresso dominato da De Benedetti, in cui era rifluita Repubblica, ma tutta intera.

La cronaca di questi due anni è avvincente, fedele. Qualcuno più addentro può rilevare qualche lacuna, dovuta al ruolo di Pansa in quei momenti, che era di puro testimone. Ma il ritmo c’è e si legge come fossero cose di ieri.

Qualcuno si poteva aspettare da Pansa qualche domanda di più, ma sono dettagli di un grande affresco. Pansa accetta la verità ufficiale: Caracciolo, Scalfari e i loro amici vendono alla Mondadori il controllo dell’Espresso, che, come detto, ha in pancia il 50% di Repubblica.

La Mondadori sembra destinata a finire sotto il controllo di De Benedetti, che ha firmato un patto d’acciaio (solo la corruzione per cui ci sono stati processi e condanne poteva come avvenne, fonderlo) con Cristina Mondadori vedova Formenton. Improvvisamente Berlusconi spariglia e si impadronisce di tutto e solo il colpo di genio di Caracciolo (più qualche colpo di giustizia giusta al Tribunale di Milano) salva la situazione mettendo in mezzo Peppino Ciarrapico e Andreotti.

Andreotti, come spiega lui stesso a Pansa, non vede di buon occhio tutto quel ben di Dio giornalistico in mano a uno, De Benedetti, che già si comporta come un fiancheggiatore dei comunisti, ma non può nemmeno vedere con gioia la stessa concentrazione di un avversario che lui odia almeno altrettanto, Bettino Craxi, Di qui la spartizione, forzata sulla testa di Berlusconi con la minaccia di togliergli le concessioni tv.

Nessuno ha mai ricordato abbastanza la condizione di illegalità in cui ha operato Berlusconi in tutti questi anni, nel silenzio decennale della Corte costituzionale, zitta sempre fino a quando il male è stato sanato infine dalla Legge Gasparri e soprattutto dal completamento del digitale terrestre.

Caracciolo, Scalfari e il mistero di quella cena in via Rovani

Purtroppo Pansa non cerca di approfondire un particolare, che Caracciolo racconta, per un pezzetto, nel libro intervista di Nello Ajello “Un editore fortunato”. Caracciolo racconta la cena a via Rovani, covo milanese di Berlusconi all’epoca. Ma non racconta perché ci doveva andare. Non vai a casa di un nemico per cena; e infatti quello diventa nemico solo dopo che ti ha detto che non c’è più nulla di cui parlare, perché ha preso tutto lui e allora tu gli dici sul muso che è un mascalzone e lui vti risponde: se non lo facevo io lo faceva lui (riferito a Carlo De Benedetti).

Caracciolo non ha mai elaborato, e così anche Scalfari.

L’ultima cena con Ezio Mauro

Veniamo alle ultime battute, quando Pansa concorda con Mauro di scrivere articoli per Repubblica, ma alla fine lascia perdere, perché si rende conto che le cose che scrive non sono gradite alla gran parte della redazione e Mauro lascia cadere.

Pansa ne ha già scritto, in altra occasione, usando parole grosse, come soviet. Questa volta è più sottile, mette in mostra l’astuzia monferrina: il match con un langarolo (Mauro) deve essere stato un piccolo capolavoro di astuzia contadina.

Infatti Pansa non attacca Mauro frontalmente, anche perché non può che parlarne bene:

“Nell’aprile 1996 il nuovo direttore di “Repubblica” aveva 47 anni e lavorava nei giornali da quando era poco più che ventenne. Avevo visto Ezio sul campo di battaglia della cronaca quando stava alla “Gazzetta del Popolo”. E si occupava del terrorismo brigatista che a Torino mostrava una ferocia speciale.

“Per noi inviati delle grandi testate risultava un con­corrente molto temibile. Scovava sempre la notizia o il dettaglio che nessuno aveva. E arrivava sui servizi assai prima di noi. Era di piccola statura e sempre molto veloce.

“Dalla “Gazzetta” era passato alla “Stampa” che lo aveva spedito a Roma con il compito di raccontare la politica interna e le vicende dei partiti della Prima re­pubblica. Anche in quell’incarico aveva dimostrato di possedere una marcia in più di altri colleghi che copri­vano il Parlamento e la Casta di allora”.

“Dopo “La Stampa”, Mauro passò a “Repubblica”. Con una decisione a sorpresa, Scalfari gli propose di fare il corrispondente da Mosca. Ezio accettò e si pre­parò a quell’esperienza con uno scrupolo del tutto raro nel mondo dei giornali, dove gli improvvisatori sono un esercito.

“Quindi ritornò alla “Stampa” come vice di Mieli. Continuando a mettere in mostra le sue qualità di fondo: la tenacia professionale, la curiosità per i fatti, l’estrema cura nello studio delle questioni che non si conoscono a fondo.

“Pure chi si è scontrato con Ezio, come accadde a me e tra poco lo racconterò, deve riconoscergli che pos­sedeva tutte le carte per essere un direttore forte. De Benedetti aveva visto giusto. E anche questo, bisogna dirlo, tornava a onore dell’Ingegnere e della sua per­spicacia.

“Ezio era soprattutto un uomo dal carattere mol­to forte, un tipo intransigente e ben poco incline ai compromessi. Un giornalista incontentabile che ave­va imparato anno dopo anno una verità: i percorsi professionali non si costruiscono con il bla bla, le amicizie, i favori chiesti e ricevuti. Bisognava ruscare, così dicono i piemontesi come lui e me. Ossia faticare, darci dentro, non risparmiarsi mai, cercare sempre di migliorare.

“Il lato cattivo di questa convinzione era il rischio del­la faziosità e la voglia di affermare il proprio potere su­gli altri, senza guardare in faccia a nessuno. E vedremo che proprio questi difetti vennero a galla in Mauro.

Anche Barbapapà era un fazioso, ma del tipo roman­tico, con l’occhio rivolto a via Veneto. Mauro, in­vece, nascondeva dentro di sé l’asprezza del giacobino pronto a tagliare la testa a chi non si adeguava alla sua visione del mondo. Capace di rabbie gelide che non la­sciavano scampo a nessuno,

Ma il veleno è nella fine del rapporto:

“Guidare un grande quotidiano è sempre un affare complicato. Qualunque testata diventa una giungla fitta di gelosie, di invidie, di concorrenze spietate. E possibi­le che Mauro si sia reso conto degli umori di una parte della redazione. Ma in proposito non ho una risposta. Sta di fatto che il mio ritorno a “Repubblica” si conclu­se subito dopo il congresso diessino.

Nel 2005 pubblicai ancora due pezzi. Uno in maggio per ricordare l’assassinio di Walter Tobagi, nel venti­cinquesimo anniversario della morte. L’altro rievocava la marcia dei quarantamila che nell’ottobre 1980 aveva fatto saltare il blocco sindacale della Fiat. Poi più nulla, se escludo due pezzi in onore di due colleghi scomparsi: nel 2006 Gianni Rocca e nel 2007 Claudio Rinaldi.

“Repubblica” si stava avviando a diventare un luogo chiuso. Una caserma dove era d’obbligo pensarla tutti nello stesso modo. Poteva pure andarmi bene, perché venivo pagato anche se non scrivevo. Ma non mi piaceva scroccare. E pensai che fosse giusto parlarne con Ezio.

“Nel 2005 ci incontrammo a colazione da Giovanni in via Marche. Gli dissi che volevo onorare il contratto. Ma desideravo occuparmi non soltanto di personaggi e di fatti lontani nel tempo. Avrei scritto volentieri di quanto stava accadendo nella politica di casa nostra, il mio terreno professionale da molti anni.

“L’intenzione di Mauro era un’altra: affidarmi un’in­chiesta per raccontare che cosa accadeva nelle principa­li città italiane. Gli risposi no. Sarebbe stata soltanto la riedizione, il remake come si dice dei film, di un’inchie­sta che avevo scritto trent’anni prima per il “Corriere della Sera” di Ottone. Il titolo di allora recitava: Chi comanda nelle città.

“Ma le parole “politica interna” fecero suonare l’al­larme dentro la testa di Ezio. E possibile che si sia do­mandato come l’avrebbero presa i suoi redattori che si ritenevano gli unici titolati a occuparsene. E mi replicò con una confidenza da cuneese astuto, però molto chia­ra. Allargando le braccia in un gesto che mi sembrò sconsolato, disse: «Caro Giampaolo, tu e io siamo in minoranza a “Repubblica”. Questa è la verità!».

“Voleva dire che la mia figura era diventata quella del giornalista moderato, non di destra, per carità, ma nep­pure schierato con la sinistra senza se e senza ma. Lui e io vedevamo la politica italiana più o meno nello stes­so modo. Ma l’opinione prevalente della sua redazione non era uguale alla nostra, bensì rossa, anzi color rosso fuoco”.

Ancora una volta Edipo Pansa rievoca Scalfari:

“Che alla fine sapeva fare prevalere la sua linea, anche se era a favore del democristiano De Mita”.

 

 

 

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