Il caso Sallusti e la legge Chiti-Gasparri sulla diffamazione: dal bavaglio alla brace

Alessandro Sallusti, direttore del Giornale (LaPresse)

ROMA – Chi volete libero, Alessandro Sallusti o la stampa? Se avessero fatto questa domanda oggi ai senatori, la risposta dei più sarebbe stata “Sallusti”. La proposta di legge Pd-Pdl firmata da Vannino Chiti e Maurizio Gasparri (leggi il testo integrale), in discussione alla Commissione Giustizia del Senato, prevede che la multa e il risarcimento del danno sostituisca il carcere, in caso di diffamazione a mezzo stampa. Era stato così, nella pratica, fino al caso Sallusti: in 60 anni di storia repubblicana, solo Giovannino Guareschi era finito in galera come giornalista reo di diffamazione. Nel resto dei casi i processi portavano a blande pene pecuniarie, pagate dagli editori.

Ma l’entità della multa prevista diventerebbe un ricatto perennemente pendente sulle teste dei redattori, che poco spazio lascerebbe alla libertà di stampa. La multa andrebbe da un minimo di 5 mila euro a un tetto massimo di 50 mila euro (Gasparri dixit). A questo si aggiungerebbe il risarcimento del danno che non potrebbe costare meno di 30 mila euro al “diffamante”.

Un combinato di multa più risarcimento sarebbe una mazzata per i grandi gruppi editoriali e un colpo mortale per le piccole testate: a direttori ed editori ogni anno arriva una pioggia di querele e i casi nella stragrande maggioranza sono ben lontani dalla diffamazione e dalla falsità eclatante come l’articolo firmato da Dreyfus-Renato Farina e che è costata una condanna a 14 mesi per Sallusti.

La spesa di 50 mila o di 30 mila euro per ogni causa di diffamazione porterebbe i grandi giornali a mettere un avvocato, un “commissario anti-querele” in ogni redazione per controllare tutto quello che viene scritto. Nelle piccole realtà editoriali, una manciata di multe di questa entità porterebbe dritti alla chiusura. Oltretutto, l’articolo 2 della legge parla va oltre la “stampa” e tocca il web: la diffamazione non riguarda solo quotidiani e periodici, come in passato, ma si parla anche di “testata giornalistica, radiofonica o televisiva”. “Testata giornalistica” è dire internet senza nominarlo.

Da questa legge, quindi, potrebbe uscire un quadro ben peggiore del bavaglio al quale si era urlato due anni e mezzo fa, governante Berlusconi, che meglio di Monti riesce a catalizzare l’attenzione degli oppositori.

Mentre ora si parla pochissimo delle conseguenze di una legge scritta così, sull’onda del caso Sallusti. Distratti dal rischio di fare una figuraccia internazionale, dall’eventualità di leggere sui giornali stranieri titoli come “In Italia per reati d’opinione si va in carcere”, i parlamentari, su pressione anche del presidente Giorgio Napolitano, stanno confezionando per i giornalisti un futuro a piede libero ma a bocca cucita e mani legate.

Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, ha lanciato l’allarme alla Commissione Giustizia in Senato: bisogna cambiare e molto il testo della Chiti-Gasparri. Rinviare il discorso della diffamazione sulle testate web ad un altra legge specifica, rivedere al ribasso l’entità di multe e risarcimenti.

Se questa è la posizione dei giornalisti, dall’altra parte ci sono magistrati e avvocati: corporazioni contro corporazioni. Appare sensata la proposta di Valerio Spigarelli, che ha parlato in Senato a nome dell’Unione delle camere penali, gli avvocati penalisti. Secondo Spigarelli, su un tema così delicato come la diffamazione non si può legiferare incalzati dall’avvicinarsi dell’arresto di Sallusti:

“È già un paradosso lacerante avere accantonato, proprio in questi giorni, ogni ipotesi di depenalizzazione e revisione del sistema sanzionatorio, che avrebbero liberato le carceri da accusati o condannati per reati non meritevoli della detenzione: adesso non si può correre come lepri per evitarla alla categoria dei giornalisti che, giustamente, non incrementano la popolazione detenuta. Se, per giunta, il Parlamento corresse per una persona sola, il paradosso diverrebbe insopportabile”. Quindi “va tolta di mezzo la mannaia del caso Sallusti, e ciò con qualsiasi strumento: quello eccezionale della grazia, ma anche quello del tutto ordinario della domanda di misura alternativa da parte del giornalista”.

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