Un assegno che non piace ai politici

LUCA RICOLFI
Può piacere o non piacere Dario Franceschini, il nuovo segretario del Partito democratico. Si possono nutrire seri dubbi sulla sua preparazione economica, visto il modo in cui si fece strapazzare da Tremonti in tv qualche mese fa a proposito di Pil, deficit e dintorni. Per non parlare del semplicismo della sua ultima proposta: fare un decreto legge per dare un assegno a tutti i disoccupati e finanziarlo con i proventi della lotta all’evasione fiscale. Però è difficile negare che da quando c’è lui – ossia da poco più di una settimana – la musica nel Pd sembra cambiata. Il nuovo segretario appare meno indeciso, meno condizionato dalla nomenklatura di partito (forse anche perché non ambisce a essere confermato a ottobre), meno oscillante fra dialogo e non dialogo, meno romanocentrico, ma soprattutto sembra avere interrotto o perlomeno attenuato la sindrome da incertezza che affliggeva il Pd su quasi tutto.

Su testamento biologico, collocazione nel Parlamento europeo, rapporto con i sindacati, referendum elettorale e così via. In più, come ha capito subito l’esperto Berlusconi, Franceschini sa stare in tv.

Fra tutte le mosse del neo-segretario, quella dell’assegno per tutti i disoccupati (non solo per le fasce protette) è decisamente la più importante, perché interessa la gente, mette in difficoltà il governo, e costringe un po’ tutti a prendere posizione. Vediamole dunque queste posizioni.

Posizione A: si può fare, ma per adesso si deve fare in deficit, recuperando i soldi nei prossimi anni, ad esempio con i proventi della lotta all’evasione fiscale. Per quel che capisco, è la posizione prevalente nel Pd e nei sindacati (e anche quella di Franceschini).

Posizione B: si può fare, ma non in deficit, i soldi si possono trovare riformando le pensioni (ad esempio abrogando la contro-riforma di Prodi). È la posizione dell’Udc, della Confindustria, di Enrico Letta e dell’ala liberal-riformista del Pd.

Posizione C: non ci sono né i tempi né i soldi, non si può fare. È la posizione di molti esponenti del governo, compreso Berlusconi.

Ciascuna di queste posizioni ha dalla sua diverse buone ragioni. È vero, ad esempio, quel che dice il ministro Sacconi, e cioè che una riforma degli ammortizzatori sociali organica richiederebbe troppo tempo, mentre il problema di sostenere il reddito di chi perde il lavoro va affrontato subito, quindi inevitabilmente con gli strumenti che già ci sono. Così come è vero che qualsiasi riforma degli istituti attuali – assegno di disoccupazione, cassa integrazione ordinaria e straordinaria, mobilità breve e lunga, ecc. – dovrebbe eliminare una miriade di abusi (da parte delle parti sociali) e inadempienze (da parte della pubblica amministrazione): lavoratori in cassa integrazione che lavorano in nero, proroghe concesse per pressioni politiche, borsa del lavoro incapace di far incontrare domanda e offerta. È altrettanto vero che lo stato dei nostri conti pubblici rende estremamente rischioso un finanziamento in deficit e suggerisce piuttosto di puntare su un riequilibrio del sistema pensionistico, che sarebbe ben accolto dai mercati e potrebbe rendere meno vulnerabili i nostri conti pubblici (grazie a una riduzione del differenziale fra titoli di stato italiani e bund tedeschi). È verissimo, infine, che in un momento di crisi è dura chiedere ulteriori sacrifici ai lavoratori.

In tutta questa discussione, però, resta in ombra – almeno nel dibattito politico – un punto a mio parere assolutamente centrale, e cioè che in gioco non ci sono solo una decina di miliardi di euro (le valutazioni del costo della riforma oscillano fra i 5 e i 15 miliardi di euro) ma anche un principio di enorme portata psicologica: l’automatismo o la discrezionalità del sostegno. Attualmente buona parte dei cosiddetti ammortizzatori si attivano e si prorogano in base a scelte discrezionali della politica, come risultanti di complessi negoziati fra sindacati, Confindustria, governo, amministrazioni locali. Inevitabilmente tali scelte premiano gli attori e i territori forti a discapito di tutti gli altri. Proprio per questo il sistema attuale non dispiace alla politica, intesa in senso lato, e penalizza enormemente gli attori deboli: giovani precari, artigiani, piccole imprese e loro dipendenti. Il sistema alternativo, ossia quello dell’assegno unico e automatico per tutti coloro che hanno perso un precedente lavoro, ha invece il grande vantaggio di codificare un diritto individuale che non andrebbe negoziato con nessuno, e quindi toglierebbe molto potere alle istituzioni e alle lobby che – aprendo e chiudendo infiniti tavoli di trattativa – amministrano l’esistenza dei lavoratori, per lo più tutelando i forti e dimenticando i deboli. Ma c’è un altro preziosissimo vantaggio del sistema dell’assegno unico e automatico: rendendo universale e certo il godimento del beneficio in caso di necessità, l’assegno unico contribuirebbe a ridurre l’incertezza delle famiglie, ossia una delle cause che oggi deprimono la fiducia e per suo tramite i consumi.

Che fare, dunque? Una modesta proposta potrebbe essere questa. Governo e opposizione si diano un termine certo, per esempio il 30 settembre di quest’anno, per approvare in Parlamento un disegno di legge condiviso per il riordino e l’unificazione degli attuali ammortizzatori sociali (molti progetti esistono già, si tratta solo di integrarli e soprattutto di scrivere le norme attuative, fondamentali se non si vuole che l’entrata in funzione vada alle calende greche). Quanto al finanziamento del nuovo istituto, la base minima potrebbe essere costituita dalla somma dei costi degli istituti pre-esistenti, pari a parecchi miliardi di euro. Il resto sia tratto dalla riforma della previdenza, in una misura che potrà aumentare man mano che ci decideremo a ritoccare il nostro sistema previdenziale, rendendolo più sostenibile. Se una certa riforma fa risparmiare la cifra X, mettiamo quella cifra nel «salvadanaio» del nuovo assegno di disoccupazione. Gli iperprotetti pagheranno qualcosina, ma in compenso giovani e fasce deboli avranno finalmente un minimo di tutela.

Naturalmente non se ne farà nulla, perché politici, amministratori locali, sindacati vari preferiranno continuare a sedersi intorno a un tavolo per negoziare tutto. Ma è bello qualche volta immaginare di vivere in un mondo diverso da quello reale. Un mondo in cui la politica, che proprio grazie alla crisi vede continuamente crescere il proprio potere, sia capace anche – per una volta – a fare un piccolo passo indietro. Per il bene dei più indifesi, e forse persino per il bene della politica stessa.

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