Bob Dylan a Padova sorride, ma resta la rabbia del poeta di Greenwich

‘The Times are changing’, è tempo di sorridere: al concerto di Padova Bob Dylan con l’armonica in mano ha sorriso ripetutamente, abbandonando per buona parte dello spettacolo il distacco imperturbabile che lo ha sempre contraddistinto. La prima tappa italiana 2010 ha rivelato un Dylan carico di nuova espressività, in perfetta sintonia con la sua band.

Il blues maestoso del nuovo arrangiamento di ‘Masters of War’ del 1965 dimostra che Dylan non ha abbandonato lo spirito sarcastico, accusatorio, disincantato. Non è accantonata la rabbia del poeta di Greenwich, icona della protesta anni ’60. Resta la voce roca, sempre piu’ cavernosa e cupa quando canta di guerra in tempi come questi ‘fuori di testa’, ‘Time out of mind’, come recitava il titolo dell’album di fine millennio.

Qualcosa però è cambiato se, staccando la bocca dall’armonica per dar spazio alla chitarra solista di Charlie Sexton, Dylan sorrideva e si è dato al pubblico della periferia nordestina con una gestualità diretta, incitativa. E’ la filosofia di ‘Togheter through life’, per davvero, stavolta. Una sorpresa, dopo i blues quasi feroci dei primi brani del concerto, annunciato anche in autostrada dai cartelli luminosi ‘Concerto di Bob Dylan, uscita Padova Est’.

Un regalo, dopo un ‘I’ll be your baby tonight’ irriconoscibile, distaccato, quasi strafottente, ma sempre sessualmente provocatorio e cantato finalmente di nuovo con la chitarra al collo. In ‘The levee’s gonna break’ la voce di Dylan fatta blues, con una pausa ha tenuto sospesa sulla lingua tutta la musica di una band in piena forma, decisa a giocare su ogni registro, anche a beat pieno con la batteria di George Recile che caricava di energia le note travolgenti di ‘Cold irons bound’. La chitarra di Sexton che urla facendo da controcanto alla voce roca: quella del solista che interloquisce con la musica è specialità jazz. Inoltre, se un tempo era improprio definirlo una rockstar, perché avrebbe appiattito la dimensione del cantautore, adesso è azzeccato chiamarlo anche così.

Scenografia sobria, con lo stacco di luci ogni fine canzone e la proiezione di un intrico di linee sullo sfondo solo per il manifesto metropolitano ‘Highway 61’, destinata a essere rivista ad saecula. Se l’aspettativa è sempre quella di risentirla nelle tonalità originali, povere, marginali del primissimo Dylan, è questo salto verso la normalizzazione acustica che ne consacra la classicità. Sulle note di ‘The ballad of a thin man’ Dylan ha recuperato accenti da demone dell’inferno quotidiano. Ripetendo a ginocchia piegate tre volte ‘American tax’ ha trascinato sotto al palco, ordinatamente tutto il pubblico.

Tre i bis concessi dall’uomo che ha insegnato alle generazioni che la parabola del potere è ‘Like a Rolling Stone’ come una pietra che rotola, eseguita tra le ovazioni. Chiusura su ‘All along the watchtower’, mentre sullo sfondo è comparso in bianco e nero un grande occhio dalla pupilla a spirale, coronato di rune. Un riassunto di stili e una lezione di professionalità, quella che il Piazzola Live Festival è riuscito a portare a Padova.

La città euganea ne ha beneficiato grazie alle previsioni metereologiche avverse che annunciavano un Fortunale e hanno consigliato per motivi di incolumità del pubblico di spostare il concerto da Piazzola al coperto del palasport di Padova. Quasi 5 mila i biglietti venduti, pubblico eterogeneo da tutto il nord Italia, americani delle basi Usa compresi. Ha cominciato a piovere solo a spettacolo finito.

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