ROMA – David Bowie è morto oggi a 69 anni. Il Duca Bianco, mago della reinvenzione di se stesso, non è sopravvissuto all’ultima delle sue creature. Lazarus, l’ultimo singolo uscito il giorno del suo compleanno (8 gennaio) è il suo testamento. Era malato di cancro da tempo.
Per capire l’importanza di Bowie nella storia della cultura pop basti pensare al doppio salvataggio di artisti come Lou Reed e Iggy Pop all’inizio degli anni ’70: fu lui a restituire loro lo smalto perduto e, alla lettera, gli salvò la vita. Un genio camaleontico che, come Picasso, non aveva paura di copiare, di sintonizzarsi con il bello e il nuovo sempre un passo avanti (o due indietro): dove lo cercavi lui non era già più lì.
David Robert Jones nacque una prima volta a Londra nel 1947. All’inizio, folgorato dal rock&roll americano, vuole diventare l’Elvis bianco. Claudio Fabretti su Onda Rock condensa in un breve ritratto il genio camaleontico di un protagonista assoluto di una sottocultura elevata scuola d’arte.
David Bowie, ovvero uno, nessuno e centomila. Quarant’anni di carriera all’insegna delle metamorfosi, dell’incessante ansia di percorrere e precorrere i tempi: “Time may change me, but I can’t trace time” (“Changes”, 1971) è da sempre il suo credo. Un genio mutante, dunque. Ma il trasformismo è solo la più appariscente tra le arti di questo indecifrabile dandy, incarnazione di tutte le fascinazioni e contraddizioni del rock e, in definitiva, della stessa società occidentale.
Nessuno come lui ha saputo mettere a nudo i cliché della stardom, il rapporto morboso, ma anche ipocrita, tra idoli e fan, il falso mito della sincerità del rocker, l’assurdità della pretesa distinzione tra arte e commercio. Bowie è stato anche uno dei primissimi musicisti a concepire il rock come “arte globale” (pop-art?), aprendolo alle contaminazioni con il teatro, il music-hall, il mimo, la danza, il cinema, il fumetto, le arti visive. Con lui scompare ogni confine tra cultura “alta” e “bassa”.
Perché – secondo una sua stessa felice definizione – “è insieme Nijinsky e Woolworth”. E’ grazie ai suoi show che il palcoscenico del rock si è vestito di scenografie apocalittiche, di un’estetica decadente e futurista al contempo, retaggio di filosofie letterarie e cinematografiche, ma anche dell’arte di strada dei mimi e dei clown. E in ambito musicale la sua impronta è stata fondamentale nell’evoluzione di generi disparati come glam-rock, punk, new wave, synth-pop, dark-gothic, neo-soul, dance, per stessa ammissione di molti dei loro esponenti di punta. (Claudio Fabretti, Onda Rock).