Giuseppe Verdi: compositore all’avanguardia, “sfrattato” e tiranno

Pubblicato il 12 Novembre 2012 - 16:12 OLTRE 6 MESI FA
L’ultima foto di Giuseppe Verdi (Wikimedia Commons)

BUSSETO, PARMA – Giuseppe Fortunino Francesco Verdi compirà 200 anni il 10 ottobre 2013: si preparano fasti, celebrazioni e commemorazioni. Il personaggio fornisce un materiale sterminato su cui lavorare. Tre articoli che in un solo giorno restituiscono tre aspetti diversi del compositore di Busseto: Riccardo Muti sul Corriere della Sera, Rita Sala sul Messaggero, Camillo Langone su Libero.

Verdi compositore all’avanguardia. Il maestro Riccardo Muti ha scritto un libro: Verdi, l’italiano. Ovvero, in musica, le nostre radici (Rizzoli, €18,50), uno Zibaldone di riflessioni sparse sull’opera di Verdi. Secondo Muti Verdi con il suo “suono muto” anticipò l’espressionismo di qualche decennio:

Nel Macbeth, e ricordiamo che è del 1847, Verdi chiede all’orchestra un suono muto, al cantante una voce soffocata, che sembrano una contradictio in terminis: «muto» significa «silenzio». Suono muto significa «suono che non è suono». Questo è virtuosismo, perché richiede allo strumentista non solamente l’esercizio e l’esperienza di ciò che ha studiato in conservatorio, ma anche il contrario: e cioè di emettere un suono… non emettendolo. Su questo suono muto vi è poi l’indicazione diminuendo. Come si può diminuire un suono che è già un non suono? È questa la grandezza di Verdi. Ha un concetto del suono e della sua emissione che non appartiene a quello nostro, «normale». Verdi è molto più moderno di quello che noi pensiamo, e qui è davvero proiettato molti decenni in avanti: indicava sonorità pressoché espressionistiche, ben prima che l’espressionismo diventasse una scuola di composizione o di pittura. Suono muto, suono soffocato, senza suono, con voce oscillante, sono tutti termini che non si troveranno neppure nelle partiture di Aleksandr Scrjabin, che sono ricche di prescrizioni ben precise.

Già all’inizio del suo percorso creativo Verdi si rivela un compositore «del futuro» e intende usare l’orchestra e la voce, specialmente la voce, in un modo ben diverso da quello atletico oggi in voga, quando si richiedono ai cantanti prestazioni di virtuosismo e potenza. Per lui la voce era davvero veicolo di espressione, ma un’espressione di tale modernità che, se cercassimo di realizzarla nei nostri teatri tradizionali, saremmo presi per matti.Un chiaro esempio di questo è il ruolo di Lady Macbeth. Non credo che oggi il pubblico accetterebbe una Lady Macbeth con una voce rauca, una «voce che avesse del diabolico», ma è così che Verdi la voleva.

Verdi sfrattato. C’è scritto “Vendesi” in via Roma 56 a Busseto (Parma), sulla porta di Palazzo Orlandi, la casa dove Giuseppe Verdi compose il Rigoletto, Luisa Miller e Stiffelio. Ci abitò dal 1849 al 1851, convivendo “scandalosamente” con il soprano Giuseppina Strepponi, che avrebbe sposato solo nel 1859.

Come spiega Rita Sala sul Messaggero, i fasti del bicentenario non sono arrivati a Palazzo Orlandi, che oltre a essere in vendita “ha l’aspetto desolato di un magazzino in disuso, vuoto di mobili, di quadri, di suppellettili, ma ingombro di materiali edili, travi di legno e calcinacci. Nessuna maestà conservata. Nessun rispetto. C’è da augurarsi che, proprio in occasione del 2013, qualcuno faccia succedere qualcosa”.

Verdi “tiranno a caccia di quattrini”. Nelle “Lettere” pubblicate da Einaudi (a cura di Eduardo Rescigno, 90 €) ci sono 70 anni di vita del maestro e giocoforza il lato prosaico della sua personalità emerge e forse prevale su quello artistico. Determinato manager di se stesso, proprietario di casa e di tenuta puntiglioso ed esigente, attaccato alla terra come ai soldi. Camillo Langone su Libero si diverte a sottolineare gli aspetti più antiromantici di Verdi, più “cane ringhioso” che “Cigno”:

Il padrone di casa se la prende col fattore, col segretario, con gli artigiani, con qualsiasi poveretto gli capiti a tiro, e sbuffa e inveisce contro la servitù scioperata. Tende a trasformare tutti in propri domestici. […] Per centinaia e centinaia di pagine Verdi sembra preoccuparsi più di cavalli e di cani che di cristiani. Giuseppe De Amicis (cugino di Edmondo) che pure aveva una vita sua, un solido mestiere di ingegnere, da amico viene degradato a spicciafaccende e incaricato di commissioni non esaltanti come procurare dei materassi, riscaldare le stanze, ridipingere la gabbia del pappagallo Lorito, comprare e spedire dolciumi […]

Scarseggia l’amore, scarseggia l’ortografia (si legge spesso “dumque”, “qualumque”, “publico”, “sogeto”, “Schacspeare”) scarseggia pure l’arte […] Verdi […] preferisce parlare antiromanticamente di soldi, senza alcuna ipocrisia. Scrive a tutti che a lui, più della gloria, interessa diventare milionario. Tratta gli editori come fossero bancomat, gli impresari come parassiti da sopprimere, il pubblico come massa di gonzi a cui spillare quattrini.