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Naples Calling, il nuovo album degli ‘A67: Scampia, Clash e… Narcos. L’intervista a Daniele Sanzone

A67, Naples Calling
Daniele Sanzone, Enzo Cangiano e Gianluca Ciccarelli (foto Gaetano Massa)

ROMA – Il 24 gennaio è uscito il nuovo disco degli ‘A67: Naples Calling. Nato e cresciuto a Scampia, il gruppo guidato da Daniele Sanzone è ripartito dai Clash.

“Un omaggio doveroso – racconta Daniele Sanzone – nel quarantennale dall’uscita di London Calling. Il pretesto è stato l’anniversario ma dei Clash in fondo noi amiamo tutto. Non sono stati solo una band. I Clash hanno fatto rock, e che rock ma, soprattutto, hanno avuto una attitudine politica precisa. I Clash, oserei dire, hanno rappresentato e rappresentano una visione del mondo. Noi ci sentiamo figli di quel movimento. C’è uno sguardo sul mondo che ci accomuna e che abbiamo voluto prendere da loro”.

“Abbiamo preso in prestito questo titolo – continua – per raccontare la nostra Napoli. Anche nel video di Naples Calling c’è l’idea di una Napoli che chiama se stessa attraverso la maschera di Pulcinella. Pulcinella che pur di risvegliare il proprio popolo dalla rassegnazione arriva a un atto estremo: quello di darsi fuoco in piazza Mercato. Una piazza simbolo. Lì fu uccisa Eleonora Pimentel Fonseca nel 1799. Lì nacque anche Masaniello. Il nostro è un Pulcinella rivoluzionario che si immola come Jan Palach nella primavera di Praga o come Mohamed Bouazizi dando vita alla primavera araba. La speranza è che da questo sacrificio Napoli possa risorgere dalle proprie ceneri e avviarsi verso una nuova primavera”.

Parliamo di Eleonora Pimentel Fonseca.

“Per noi napoletani è una eroina. Purtroppo la rivoluzione napoletana non finì benissimo. Ma lei è una figura meravigliosa e ho voluto citarla anche in un’altra canzone del disco: I Colori”.

Nella copertina dell’album, su sfondo rosso, c’è una mano che fa le corna. Com’è nata l’idea?

“Allora devi sapere che Ronnie James Dio, il cantante dei Black Sabbath, fu il primo a fare le corna sul palco. E lo fece perché la nonna le corna gliele faceva sempre. E guarda caso la nonna di Ronnie James Dio era campana. Volevamo un’immagine forte in copertina e le corna uniscono il rock e la scaramanzia. Un’idea, quella della nostra copertina, che negli anni ’90 sarebbe stata considerata glocal. Globale e internazionale come il rock, locale proprio come la nostra scaramanzia. E quest’album forse è il disco più internazionale che abbiamo realizzato”.

Naples Calling, album
La copertina di Naples Calling

Dall’ultimo vostro album, era del 2012, sono passati otto anni. Cos’è cambiato e quanto siete cambiati in questi anni?

“Un bel po’ di anni… Il nostro ultimo album in realtà era un disco di cover di canzoni napoletane. Un disco rock puro. In questi anni siamo cambiati tantissimo ma paradossalmente siamo rimasti sempre gli stessi perché in fondo il nostro sguardo sul mondo è rimasto sempre quello. In fondo il nostro primo album ‘A camorra song’io e Naples Calling si somigliano molto soprattutto nel messaggio politico. Non un messaggio ideale ma un messaggio politico con la P maiuscola. Nel nostro disco abbiamo cercato di parlare dell’immobilismo di questo paese”.

Forse poi questo è un disco un po’ più elettronico…

“Sì. Assolutamente. I nostri dischi non si somigliano mai musicalmente e siamo sempre andati alla ricerca di nuovi suoni. Nei precedenti album non abbiamo mai dato tanto spazio all’elettronica non perché non la amassimo ma perché eravamo legati a un sound diverso. Questa volta ci siamo presi un po’ di tempo ma abbiamo trovato il produttore giusto – Massimo D’Ambra – e siamo riusciti ad affrontare questo nuovo suono per noi”.

Altra novità è l’uso del’italiano. Come mai questo cambio stilistico?

“Giusto. Sai, è stato molto naturale per noi passare all’italiano. In passato abbiamo ricevuto sempre molti complimenti e premi per la nostra scrittura. Ma scrivere in italiano per me è sempre stata una sfida. Mi sono detto: caz** (le censure sono sempre per colpa di Google, ndr), ma se siamo bravi con il napoletano perché non proviamo anche con l’italiano? Poi ho capito che il mio problema, come lo è per tutti noi napoletani, era quello che io ho sempre fatto tutto in napoletano: io mangio, scrivo e dormo in napoletano. Quindi alla fine l’italiano risultava sempre una traduzione dal napoletano. Ma la traduzione, si sa, falsifica sempre i testi originali. Quando ho capito questo, e lo devi capire sulla tua pelle, ho iniziato a scrivere in maniera differente. E ora mi riconosco anche nella scrittura in italiano. E io, che di solito sono sempre molto critico con me stesso, ora sono molto felice del risultato”.

Con Claudio Poggi hai scritto un libro su Pino Daniele. Cosa ha rappresentato Pino Daniele per te e per la vostra musica?

“Tutto. Pino Daniele per Napoli è come Bob Marley per la Giamaica. Noi abbiamo avuto anche la fortuna di conoscerlo e di salire sul palco con lui. Per noi napoletani Pino Daniele è come se fosse Dio. Forse è stato il più grande artista, per composizione e scrittura, che ha avuto l’Italia. Non era solo un poeta ma era anche un raffinato compositore. Forse Lucio Dalla si è avvicinato a lui. Parlo di completezza perché poi noi abbiamo avuto grandi cantautori come De Gregori, De Andrè. Ma forse Dalla e Pino Daniele erano più completi perché venivano dalla musica e avevano un background prettamente musicale mentre per i grandi cantautori spesso la musica è stata un orpello per enfatizzare le parole. De Andrè, infatti, secondo me è diventato il grande De Andrè quando ha collaborato con la PFM”.

Tu ti sei laureato in filosofia con una tesi sulla musica napoletana e la camorra. Come si è evoluta in questi anni la musica a Napoli?

“La musica napoletana è in continuo fermento anche perché si nutre da sempre di tutto ciò che arriva in città. Napoli è da sempre una città portuale. E’ come una spugna che assorbe tutto. Rispetto alle altre città poi Napoli ha una forte tradizione musicale. Quindi la musica qui a Napoli si evolve sempre da questa unione tra nuovo e tradizione. Negli ultimi anni forse la tradizione è pesata troppo e gli artisti qui hanno fatto fatica a scrollarsi di dosso questo peso. Lo stesso Pino Daniele ci ha insegnato che bisogna partire dalle proprie radici ma poi bisogna contaminarsi con i suoni del mondo. Lui lo ha fatto con il blues e con il rock. Ma prima di lui lo hanno fatto anche Carosone, gli Almamegretta e i 99 Posse”.

Ho letto che tu consideri il neo melodico la vera musica rap italiana. E’ più o meno la stessa cosa che mi disse anche Livio Cori. E’ davvero così? Il neo melodico è davvero la vera voce dei quartieri?

“Assolutamente sì. Esattamente come i Public Enemy definivano il rap la CNN dei poveri. La musica neo melodica è una musica che nasce in questi contesti e rappresenta questi contesti. Lo rappresenta in tutto: nel modo, nel linguaggio, nel costume e nella cultura. C’è una fascia sociale che si autorappresenta attraverso le canzoni. Io vengo da Scampia e grazie alla mia famiglia ho avuto la possibilità di studiare e proprio grazie a questo i miei riferimenti musicali non sono diventati i cantanti neo melodici ma altri. Ma per chi non ha avuto la fortuna di studiare i riferimenti sono quelli perché loro danno voto a quella determinata classe sociale. La vera musica popolare, proprio in termine pop, è proprio la musica neo melodica. E avendola studiata ti posso dire che la musica neo melodica napoletana non è neanche così distante dal pop nazionale. Non credo che un Tony Colombo, ti dico lui per intenderci, sia così distante da Laura Pausini o Eros Ramazzotti sia nella struttura della canzone che nei testi”.

Tanto è vero che ora la musica neo melodica napoletana si ascolta in tutte le periferie d’Italia.

“Esatto. Nel Sud Italia da sempre ma ora anche a Milano. C’è da dire che negli ultimi anni ha anche influito il fenomeno Gomorra”.

Parliamo della serie di Gomorra.

“Allora quello di Gomorra è un discorso molto complesso. Io credo che il libro sia stato fondamentale. Credo che il film di Garrone sia stato un piccolo capolavoro. Invece non ho condiviso la scelta della fiction. Fiction che reputo fatta benissimo ma con una narrazione rischiosa. Rischiosa perché racconta un fenomeno da un solo punto di vista, che è quello criminale. Non ci sono le forze dell’ordine. In Narcos, per esempio, trovi tanti punti di vista. Nella serie di Gomorra no. Ma, soprattutto, la serie racchiude quarant’anni di storie di camorre in un arco temporale relativamente brevissimo sovrapponendo storie e personaggi lontani. Si è come sovraeccitata la realtà. E il tutto, quindi, non è più vero. Tutte le storie sono vero simili ma non sono successe in realtà una dietro l’altra. Se tu guardi la serie sembra di stare a Baghdad ma la realtà è un’altra. Scampia poi negli anni è cambiata tantissimo. Nella serie si racconta una Scampia che non esiste più e che è ferma a quindici anni fa”.

Allora Scampia com’è cambiata in questi anni?

“E’ cambiata tantissimo. Il problema è che il cambiamento vero ci sarà solo quando ci sarà anche un lavoro dignitoso. Quando ci sarà quindi la possibilità di una alternativa reale. Scampia non è più la piazza di spaccio più grande d’Europa, così come viene raccontata nella serie, ma non è che la camorra o la droga non esistano più. E’ cambiato il sistema. Adesso si incontrano attraverso i social. Ci sono comunque segnali di riqualificazione ma siamo ancora lontani dal diventare, tra virgoletti, normali. La normalità si potrà ottenere solo con il lavoro”.

Torniamo invece all’album. Album che sembra diviso in due temi principali: l’impegno sociale e l’amore. Qual è il filo che unisce le canzoni d’amore?

“Bella domanda. Ehm… Sicuramente, sai, il disco è sempre una fotografia di un momento storico. E in questi ultimi anni io che scrivo i testi ho preso un bel po’ di… batoste. Ho sofferto e ho fatto soffrire. Comunque non scordiamo che tra le canzoni d’amore c’è anche Tuyo che è la versione in napoletano della sigla di Narcos”.

Ho letto che avete anche conosciuto l’autore della canzone, Rodrigo Amarante.

“Sì. Lui è innamoratissimo di Napoli. E’ stato un po’ come un abbracciarci”.

Poi c’è quindi la parte più impegnata dell’album. Su questo fronte ci sono anche le collaborazioni con Caparezza e Frankie hi-nrg. Due collaborazioni, queste, che non sembrano nate a freddo solo con una logica discografica.

“Bravo. Queste collaborazioni infatti sono nate da una stima e da un’amicizia reciproca profonda. Con tutti quelli che hanno collaborato a questo disco ci lega un’amicizia vera e anche qui una visione del mondo comune. Le collaborazioni in questo album sono diventati degli abbracci sonori”.

Nell’album ci sono tante citazioni e in Bluemoon, per esempio, si paragonano gli effetti sulla società della realtà virtuale con quelli che ebbe l’eroina negli anni ’70.

“L’operazione Bluemoon sterilizzò i momenti di lotta degli anni ’70. Oggi per fortuna non abbiamo questo anche se l’eroina sta tornando a mietere vittime in modo spaventoso. I social, come l’eroina in quel periodo, hanno completamente assuefatto e alienato una generazione e quindi credo che il paragone ci stia tutto”.

Ma come ci sono finiti alcuni versi di Catullo nel disco?

“Quella poesia Gianlu’ è meravigliosa e l’ho sempre amata. C’era questo testo d’amore e mi sono detto caz**, perché non parafrasare il grande Catullo”.

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