Riccardo Muti all’Opera di Roma dirige “Simon Boccanegra”, cupa lezione di Verdi

Riccardo Muti (Foto Lapresse)

ROMA  – Un vero trionfo per l”esordiente’ Riccardo Muti alla prima, mercoledì sera, all’Opera di Roma di Simon Boccanegra, il capolavoro del Giuseppe Verdi maturo con cui il maestro non si era mai misurato finora. Parterre delle grandi prime, con i vertici istituzionali al completo: il Presidente Giorgio Napolitano,il Premier Mario Monti, cinque ministri, il Sindaco Gianni Alemanno. E tanti vip. Opera fosca al maschile, dall’intreccio complicato (per questo Muti ha voluto, per la prima volta per un’opera in italiano, un display col testo in alto) e atmosfere gotiche. Vicenda cupa e musica, per contrasto, soave, rarefatta. Privato e pubblico si incrociano.

Una invocazione al mare, un inno alla pace e all’amore: il Simon Boccanegra ha consegnato una sintesi perfetta dei tanti piani che si intersecano in quest’ opera scritta e riscritta da Verdi due volte (1857 e 1881). Per questa prima, che segna anche l’apertura della stagione al Costanzi, un cast d’eccezione con grandi nomi e Premi Oscar: regia dell’inglese Adrian Noble, per anni direttore della Royal Shakespeare Company, scene di Dante Ferretti (tre Oscar), arredamento della moglie Francesca Lo Schiavo (un Oscar col marito), costumi di Maurizio Millenotti (due nomination), luci di Alan Burrett. Top anche i cantanti: il baritono George Petean (Simon Boccanegra), il soprano Maria Agresta (la figlia Maria), il basso Dmitri Beloselskiy (Jacopo Fiesco), il tenore Francesco Meli (Gabriele Adorno), il basso Quinn Kelsey (Paolo Albiani).

Fra le tante opere di Verdi dirette, questa, Muti, per una forma di timoroso rispetto, ancora non l’aveva diretta. Un ‘esordio’ dunque a lungo maturato, e debitamente premiato dal pubblico. Diluvio di applausi alla fine per maestro, cast, regia, coro (direttore Roberto Gabbiani) e l’Orchestra del Teatro dell’ Opera. Un formidabile viatico mutiano per l’anno verdiano. Sobrio e classico l’impianto della regia. D’epoca (siamo nel XIV secolo) e fedeli le scene (cinque quadri) dove dominano i colori del romanico genovese (marmo bianco e verde scuro) con archi, colonne, e una scalinata sovrastata da un leone davanti al Palazzo ducale. Sullo sfondo, una lingua di mare cangiante ricorda che siamo a Genova. La prima scena incornicia i protagonisti in un ampio arco affiancato da colonne. Nella seconda è il mare lontano a dominare: davanti un filare di alberi da giardino italiano, due torri rotonde di lato e delle catene, sospese, che fendono la scena dall’alto.

Nella terza siamo alla corte del Doge di Genova (Simone) con la grande statua del leone. La quarta è la camera del Doge: un enorme portale, una dormeuse e una parete tappezzata di quadri di maestri del colore. Nel quinto e ultimo quadro, quello della morte di Simone, ritroviamo il leone al centro con ai lati le colonne e un fondale blu notte marino, cupo crepuscolare. Esecuzione mirabile dell’orchestra presa per mano da Muti. Momenti di vera magia in tutta l’opera: quando il Doge, che oltre alla sua privata anela alla pace fra Genova e Venezia, fra patrizi e plebei, invoca: ”e vo’ gridando pace, e vo’ gridando amor”. O, in punto di morte, prega per la figlia e lo sposo: ”Gran Dio, li benedici… a lor del mio martirio cangia le spine in fior”, con Fiesco che chiude: ”ogni letizia in terra è menzognero incanto”.

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