Rocco Hunt: “Ecco a chi dedico Wake Up”

Rocco Hunt (foto Ansa)
Rocco Hunt (foto Ansa)

ROMA – “Il rap rappresenta le mie radici ma non voglio chiudermi in una gabbia – dice, intervistato da Tgcom24, Rocco Hunt – Così do sfogo anche alla mia anima più nazionalpopolare”.

Con Carosone invece sei andato a pescare nella storia della musica napoletana…
Portare Carosone per me è sperimentare. Portare un brano datato, reinventarlo e portarlo alla mia generazione. E poi è la dimostrazione che la canzone napoletana famosa nel mondo è immortale perché se un pezzo di Carosone arriva fino a me e di conseguenza a chi mi segue, c’è un ricambio generazionale.

In “Wake Up” è evidente un richiamo a Pino Daniele.
Ho avuto la fortuna di esibirmi con lui a Napoli, 15 giorni prima della sua scomparsa, in quello che è stato il suo ultimo concerto a Napoli. Mi ha riempito di complimenti e avremmo dovuto anche esibirci insieme, poi non è stato possibile per quello che è successo. Quando mi sono messo a scrivere il pezzo l’omaggio è stato naturale. Avevo pensato anche di mettere una parolina ma poi ho avuto paura che la cosa sarebbe stata presa come una strumentalizzazione. Sono cresciuto con lui e tuttora resta il mio artista preferito quindi è nella conseguenza naturale delle cose.

Questi due brani rappresentano un completamento di “Signor Hunt” o sono il punto di partenza per il futuro?
“Wake Up” è la punta più alta del mio percorso. Un brano funky che non è rap al 100%. Come Maitre Gims, che ha fatto un disco diviso in due parti, una melodica e una hip hop. vorrei accontentare un po’ tutti. Il mio pubblico di base è rap, che mi ha seguito dai tempi della gavetta. Ma dopo “Nu juorno buono” mi rivolgo anche a un pubblico più nazionalpopolare a cui del rap poco importa.

Quindi il rap per te rappresenta il passato?
Mi interessano entrambi gli aspetti. Il rap è la mia vita e l’hip hop la mia cultura però allo stesso tempo ho intenzione di crescere e arrivare a quante più persone possibile. E in questo senso definirsi un rapper rischia di farti rinchiudere in una nicchia, essere un termine diminutivo. Vieni catalogato e sminuito. In realtà dietro la parola rapper ci sono storie, artisti e impegno per scrivere testi che non sono quelli della musica italiana, molto semplici.

Il pubblico dell’hip hop è spesso intransigente. Qualcuno ha contestato questa tua svolta?

Chi è abituato al mio primo lavoro, pensa al Rocco Hunt che sputa rime in pezzi in dialetto, vorrebbe che io andassi a Sanremo con un pezzo del genere. Cosa impossibile e cosa che non farei nemmeno io perché ogni contesto richiede un linguaggio. Nella nuova edizione dell’album ci saranno alcuni inediti che accontenteranno tutti.

Ce n’è uno intitolato “Hiphopcrisia”. Di cosa parla?
Del fatto che quando uno osa a fare il passo più lungo della gamba viene un po’ preso di mira. Che poi è stata la paura che ha bruciato i nostri più grandi talenti rap. Avendo la paura di lanciarsi sono stati limitati da queste pippe mentali. Il talento non dovrebbe essere catalogato ma libero di spaziare.

Questo atteggiamento è comune anche ad altri ambienti, tipo l’indie. Come te lo spieghi?
Io credo faccia parte del gioco. Credo che la cosa principale siano le canzoni e il talento. Se hai quelle te ne freghi delle critiche. A meno che non si abbia una sensibilità verso chi ti segue. Per questo io do un colpo al cerchio e uno alla botte.

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