Il 25 aprile e le polemiche che lo hanno preceduto suscita questa domanda: possibile che nel nostro Paese non si riesca mai a trovare unn argomento su cui discutere serenamente per arrivare ad un risultato comune?
Prima il salario minimo, poi le armi da inviare all’Ucraina, i migranti, il termovalorizzatore, la satira, la gestione del giorno dopo giorno, il clima. Nulla. Sembra quasi che la polemica, il braccio di ferro, la divaricazione siano entrati nel dna e non riusciamo a liberarcene.
Nemmeno quando si tratta di celebrare una festa, quella del 25 aprile, che dovrebbe accomunare tutti. Maggioranza e opposizione, destra e sinistra senza distinzioni di sorta.
Pare che questo debba essere il sale della democrazia e invece non è affatto così. E’ vero il contrario. Certo che il popolo debba scegliere chi debba governare e chi debba fare il cane da guardia. Sarebbe un disastro se non ci dovesse essere una voce contraria. Si lascerebbe il campo libero a chi comanda senza la minima opposizione.
Per carità, ma tutto deve svolgersi entro i limiti della decenza e della deontologia politica. Prendiamo l’esempio più eclatante, quello della celebrazione della libertà, cioè della giornata di oggi. Pensate che bello sarebbe poter vedere il Parlamento intero ad un convegno, ad una manifestazione, ad incontro dove tutti possano dire la loro con un minimo comune multipolo da seguire.
Invece accade l’esatto contrario. Non da oggi, né da ieri, ma da anni. Non c’è 25 aprile che possa trascorrere in tranquillità. Addirittura si comincia mesi prima. Con le schermaglie che quotidianamente aumentano fino ad una incomprensione totale. Fascismo e antifascismo, dittatura e democrazia, libertà e oppressione. Senza contare che per gli uni e gli altri non c’è il minimo di pace o di ragionamento.
Così accade che mentre il presidente della Repubblica vada a deporre una corona d’alloro al milite ignoto, pochi lo seguano, anzi fanno il contrario. Questo succede anche quando la ricorrenza ha un colore diverso, come le foibe.
Insomma siamo sempre lì e non si trova mai un punto d’accordo pure quando il Paese dovrebbe essere tutto unito. Si arriva agli insulti, alle accuse pesanti, agli avvertimenti. Per non parlare della satrira che va a volte oltre ogni confine di civiltà.
E’avvenuto di recente su un giornale che in prima pagina ha disegnato la moglie di un ministro a letto accanto ad un uomo di colore e lui chiede: “Ma tuo marito?”. “Non ti preoccupare, risponde, “è sempre indaffarato con la sostituzione etnica”.
Ora l’ironia e la satira sono ammesse, anzi debbono essere digerite dagli uomini che siedono in Parlamento o al Senato. Ricordiamo il famoso vignettista di una volta, Giorgio Forattini che non tralasciava nessuno, o la rubrica sull’Unità di Fortebraccio, un ex deputato democristiano che aveva attraversato il Rubicone. Ripetiamo: quando si tratta di politici, tutto (o quasi è ammesso), ma quando si travalica quel confine allora la satira non ha più questo nome, ma è malcostume se non maleducazione o qualcosa d’altro, ben più grave.
Lasciamo stare i singoli episodi che si dimenticano in fretta sperando che non si ripetano. Il punto cruciale è quello della diversità di opinioni che non deve mai trascendere, perché sono gli uomini e le donne in vista che debbono dare il buon esempio. Allora, che fare per dare al Paese una data che possa mettere tuttin d’accordo?
Le strade potrebbero essere due: o smetterla di insultarsi alla vigilia di una festa nazionale; oppure trovare un altro giorno che possa far marciare insieme destra e sinistra. Con una folla che applaude e si ritrova a cantare l’Inno di Mameli. Ad esempio il 2 giugno, festa della Repubblica? E’ solo un’ipotesi per carità. Non vorremmo che a proposito si scatenasse l’ennesimo putiferio