Picchia Gennaro, picchia. Picchia sotto il ponte maledetto, incomincia a distruggere quello che ci sta sotto, per poi aggredire i piloni. Scava con la tua ruspa nel cemento della fabbrica, all’ombra del ponte e del suo vuoto. Sei tu il primo operaio che assalta il Morandi morente, che incominci la demolizione, il giorno 20 di dicembre 2018, quattro mesi e sei giorni dopo la tragedia.
Tu e la tua ruspa della ditta di Novarate Milanese, che eri già venuto a distruggere il cadavere della “Concordia”, la nave della Costa Carnival, diventata simbolo della vergogna marinara, spolpando il suo scafo. Ora bisogna spolpare il Morandi, simbolo della vergogna autostradale, che sta lì da questi quattro mesi e sei giorni come un Cristo crocifisso, che ha i monconi aperti sulla valle sofferente.
Ci metteranno quanti mesi a ridurre in detriti, montagne di cemento e ferro arrugginito questo colosso che saliva fino a 100 metri nel cielo bianco e azzurro della Val Polcevera, con i suoi piloni strallati, le sue corsie lunghe un chilometro e 110 metri? Ce la faranno in tempo per far partire la ricostruzione, che il supercommissario Marco Bucci, sindaco burbero di Genova, ha affidato a Renzo Piano e a quella società di nome “PerGenova”, che riunisce Fincantieri, Salini Impregilo e Italferr?
Distruggere per costruire più in fretta possibile, come se fosse facile ammazzarlo questo Morandi, che sta lì in mezzo, ti giri per guardarlo ancora oggi e cerchi di capire se l’orrore, il lutto, il dolore, la rabbia sono allo stesso posto del 14 agosto o se qualcosa è cambiato, mentre a Genova tutto è cambiato, non solo le strade di sotto, gli ingorghi, il pensiero che la città fosse spezzata, che l’Italia fosse divisa, che tutto fosse più lontano e complicato.
Tu ti giri e cerchi anche di evitarlo quello spettacolo delle pile 11 e 10, quelle più a Levante, verso il casello di Genova Ovest, quelle che i giudici ora non vogliono ancora demolire perchè forse custodiscono il segreto del crollo, tra quel cemento compresso e quei cavi di cemento corrosi dentro al cemento.
Sai che quei piloni saranno gli ultimi a cadere, perché così vuole la Procura genovese e non sai se saranno un ostacolo nella corsa contro il tempo: il sindaco commissario, che viaggia con il cronometro in mano e il procuratore capo, Francesco Cozzi, che frena.
Ma intanto dall’altra parte Gennaro e la sua ruspa hanno incominciato il loro lavoro e sbriciolano lo stabilimento Amiu, quello nel quale sono morti due operai travolti dal cemento che volava di sotto. Deve sparire come tutto quello che c’è nella “zona nera”, area demolizione e ricostruzione, che diventerà il grande cantiere, il cantiere più grande che si possa immaginare, in mezzo alla valle, sopra e di fianco alle case da demolire, con i pezzi di vita degli abitanti rimasti dentro, di fianco alle zone rosse e alla zona arancione e alla zona franco urbana, che i decreti a raffica del commissario hanno appena allargato per ridurre la sofferenza della enorme operazione distruzione-ricostruzione.
Il cantiere è la speranza e il futuro che cancella il vuoto e la disperazione dei morti e dei danni, ma è anche il caos di questo tempo, un anno, un anno e mezzo, due anni, fino alla primavera del 2020 o prima, secondo le promesse rilanciate ogni giorno dai commissari e dai ministri, che continuano a sventolarti quella data: “A Natale 2019 il ponte sarà in piedi”. Non lo potrai ancora percorrere, ma sarà lì con la sua linea “navale”, tracciata da Renzo Piano, dalla sua magica matita, i suoi piloni sotto le sei corsie, i 43 fari in memoria delle vittime, calcestruzzo e acciaio, a trentacinque- quaranta metri di altezza, quando il defunto Morandi era, ed è ancora, a sessanta metri e le sue strallature fino a cento metri.
“Sarà bello e solido come sono i genovesi”- dice Piano e ripete il sindaco. Seguirà quella lunga curva verso la galleria di Ponente, che dalla tragedia è un buco cieco: te lo hanno fatto vedere nello show di presentazione, quando hanno annunciato che il vincitore era questo gruppo, fortemente voluto dal governo giallo-verde, dal viceministro DiMaio, dal ministro Toninelli e non erano i Cimolai di Pordenone, grandi esperti- costruttori di ponti in tutto il mondo, che avevano sparato i quattro progetti di Sebastian Calatrava, superstar valenciana degli architetti. Uno di questi progetti era stupendo, con quegli archi spettacolari, a segnare il cielo, lasciato libero da Piano e dalla sua prima traccia, gli altri certamente più mossi e anche più veloci nei tempi previsti di costruzione.
Ponti di ferro e acciaio, arditi, sicuramente più eleganti di quello scelto. Meno genovesi? Bucci ci ha provato a coinvolgere anche Cimolai nell’operazione, ma è difficile, anche se hanno promesso collaborazione e anche se hanno aggiunto che non presenteranno ricorsi, “per spirito di servizio nel confronto del Paese”.
Genova ha osato di meno così, ha scelto una pista più statale, più governativa, con Fincantieri e Italferr e Impregilo, che lì, nella stessa valle stanno già costruendo il Terzo Valico, la connessione ferroviaria tra Genova e la pianura, che se l’avessero realizzata prima forse il Morandi non si sarebbe consumato così e non sarebbe crollato. “Next question!” – risponde, scherzando ma non troppo il sindaco-commissario alla domanda sul perché Cimolai sia stato scartato.
Usa il suo gergo americaneggiante per allontanare il quesito, che un po’ circola e un po’ no, intorno alla ricostruzione, al suo eventuale “pilotaggio” governativo.
Non importa, Gennaro, là sotto, sta incominciando la demolizione, l’inchiesta della magistratura va avanti, le perizie vanno avanti, gli incidenti probatori vanno avanti, i lavori di riconnessione della viabilità vanno avanti, ogni giorno c’è un’apertura di nuovi passaggi e anche la burocrazia va avanti, i risarcimenti, le richieste ai concessionari colpevoli di Autostrade sono come fucilate: 400 milioni di danni dovete pagare, scrive il commissario Bucci a Autostrade .
Quel ponte costerà 202 milioni, più caro di Cimolai di quasi 50 milioni, gli altri sono i soldi dei risarcimenti ai danneggiati, alle famiglie delle vittime, al tessuto economico che è come se gli avessero staccato la spina,perfino ai comuni sparpagliati nella valle che stanno soffrendo per lo strappo, sant’Olcese, san Cipriano, Ceranesi, Campomorone, Serra Riccò, Mignanego.
Hanno riaperto nei doppio senso la via Perlasca, che corre sulla sponda sinistra del fiume Polcevera, in una mattinata gelida di dicembre ed è stato come sturare ancor di più la valle, colassata nel traffico; avevano già aperto il corso Perrone, che scorre sotto i piloni di Ponente e ora puntano a aprire via Fillak, la più importante, quella che porta alle case degli sfollati.
Lavorano come formiche gli uomini di Bucci nella grande valle sofferente e più in basso verso il mare e il porto, dove ora è nata come una circolazione parallela, che scorre al bordo delle banchine di Sampierdarena e collega tutto, in una pista che hanno battezzato, anche un po’ polemicamente, “Grondamare”, per ricordare che Genova deve costruire anche la tangenziale-Gronda, già decisa e approvata e mezza finanziata.
Lavorano come formiche nel riannodare il tessuto della comunicazione stradale e psicologica. Renzo Piano direbbe, nel suo linguaggio da grande architetto, che ama farsi chiamare “geometra”, che stanno “rammendando” il territorio, lo stanno “ricamando” per salvarlo. Così come il rammendo e il ricamo lo stanno disegnando nei rendering del nuovo ponte, “raccontandolo” bello solido e diretto, sotto un cielo azzurro e sopra un grande parco verde, che sarebbe il futuro della zona nera.
E’ una specie di via Gluck alla rovescia. Là dove c’erano il cemento, le case, l’asfalto vogliono far tornare l’erba dei prati e un grande parco con alberi. Verrebbe Adriano Celentano a raccontarla e magari a cantarla questa storia della Valpolcevera capovolta sotto il ponte, nei disegni del futuro e nei progetti più segreti, ai quali stanno lavorando non solo gli uffici dell’Urbanistica Comunale, ma tanti gruppi di architetti, di comitati e associazioni, che intravvedono in questa grande rivoluzione urbanistica un’occasione unica di “redimere” la Valpolcevera, di far tornare gli uccellini a cantare e l’aria fina nei luoghi dove _ come racconta la sfortunata ex sindaca pd Marta Vincenzi, valpolceverina doc _ Nicolò Paganini componeva i suoi Capricci?
Sui social rispondono con invettite a queste immagini “dolcificate” del futuro sotto il nuovo ponte. “Venite in Valpolvevera, venite tra i cadaveri delle fabbriche chiuse,_ scrivono sul web_ venite nell’abbandono degli argini, sul greto secco del fiume, nello schianto urbanistico piu schizofrenico, nel dedalo delle strade, dei sotto passi, nei saliscendi periferici delle colline scollegate da tutto e diteci se è possibile che tutto questo venga cambiato con un parco e l’erbetta fina……”
E intanto la caccia alla verità della tragedia, al verdetto giudiziario che inchiodi i responsabili, va avanti, non solo scavando nei detriti, spediti perfino in Svizzera, per essere meglio studiati dagli esperti di Zurigo, ma con la sfilata degli ex ministri dai quali i giudici vogliono sapere quanto il governo controllava quel ponte.
Arriva a Palazzo di Giustizia l’ancora vulcanico ex ministro dei Lavori Pubblici, Antonio Di Pietro, niente meno colui che segnò al Ministero il trapasso della concessione autostradale all’Anas a quella alla Società Autostrade. Di Pietro non si risparmia a proclamare che lui ai giudici ha detto e mostrato, carte alla mano, di chi è la responsabilità dei controlli sull’autostrdaa e, quindi, sul ponte. “Responsabilità politiche!”_ dice senza tanti giri di parole, ma rispettando il segreto istruttorio, l’ex Pm di Mani Pulite.
E poi sfila anche l’ultimo ministro per competenza, Giuliano Delrio, che fu in quel Dicastero fino al giugno 2018, fino a ieri praticamente. “Il problema numero uno era la sicurezza”_ dice lui, rimandando alla Dgvca, la direzione che aveva la delega del controllo e alla quale toccava verificare tutto. Anche i ponti o no?
Allora picchia Gennaro, picchia ancora, che sei il primo a far passare la fase della tragedia, degli sgomberi, dei danni da calcolare, delle emergenze da superare a quella del nuovo da ricostruire.
Ora bisogna far sparire quel ponte mozzo e maledetto, sradicarlo pezzo per pezzo, farlo esplodere e trasportarlo con le gru, che sono già lì appostate intorno e alzare quello nuovo, le campate, i piloni e poi chissà quando i primi tratti di corsia, lassù 35,40 metri, a rioccupare il cielo della Valpolcevera, ma con un percorso sicuro, pieno, rassicurante.
Quanto tempo? Quanti sacrifici ancora, quanti disagi, con il megacantiere che ruggirà nella valle e la segnerà ancora, neppure un anno dopo il crollo e 52 anni dopo quella prima inaugurazione del settembre 1967, con il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, il ministro dei lavori Pubblici Giacomo Mancini, il sindaco di Genova, Augusto Pedullà e lui, l’autore, Riccardo Morandi, il grande architetto che nelle foto in bianco e nero, ripescate negli archivi, descrive la sua opera, indicando campate e stralli. Serio, compunto, vagamente preoccupato.
Aveva davvero già un viso preoccupato Morandi, forse perché non poteva sapere quanto lunga era la vita di quel ponte così nuovo, così moderno, così lanciato verso il futuro? Che ne sapevano allora della longevità del cemento armato e compresso in riva al mare, sotto le folate del vento pieno di sale?
Suo figlio Giorgio ha documentato poi quell’inquietudine, andando a ripescare negli archivi di Stato proprio nei giorni scorsi i documenti che comprovano lettere del padre, tra il 1985 e il 1989, in cui si chiedono ispezioni e controlli sul grande viadotto.
Picchia Gennaro, dimentica quella vecchia canzone genovese che raccomanda al piccone di andare giù piano piano nel distruggere le vecchie case da demolire nel cuore di Genova. Oggi in Val Polcevera bisogna fare presto. Per dimenticare. Per ripartire, per riempire la valle del ronzio dei motori, del fruscio del traffico che scorre, che collega, che è vita, mentre quel ponte maledetto è la morte.