ROMA – Bersani, dacci un nome. Che sia Giuliano Amato o Massimo D’Alema o un altro o un’altra ancora, comunque Bersani dacci un nome, “il” nome. Un nome. Ce la farà il Pd, cioè Bersani a dare al Paese e al Parlamento un nome, uno e uno solo per il Colle? Ce la farà a fare una proposta, a non farsi eleggere il Presidente della Repubblica da Berlusconi o da Grillo? Ce la farà a far convergere il voto dei suoi tanti deputati e senatori su un nome, uno solo in cui riconoscersi e chiamare gli altri a convergere? Ce la farà il Pd o esploderà, si frantumerà, si dividerà lui stesso al momento del voto? a 48 ore dal primo voto questa elementare necessità non è stata ancora esaudita, a 48 ore dal primo voto queste domande sono ancora senza chiara risposta.
Ancora “rose”, “papabili”… Se Pier Luigi Bersani e il suo partito non vogliono farsi mettere nell’angolo nella corsa al Quirinale, nonostante detengano la maggioranza relativa dei voti, devono trovare un candidato unico e presentarlo. Un candidato intorno a cui il Pd possa ritrovarsi e ricompattarsi. “Queste cose si decidono all’ultimo” ha detto Bersani. Ma “l’ultimo” è arrivato, tra sole 48 ore, anzi meno, si comincerà a votare. Se una volta l’invocazione era “D’Alema dì qualcosa di sinistra”, ora è “Bersani dacci un nome”.
Giovedì prossimo alle dieci è convocato il Parlamento in seduta comune. All’ordine del giorno l’elezione del Capo dello Stato. Due votazioni giovedì e una venerdì mattina dove, per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, sarà necessaria una maggioranza dei due terzi degli oltre mille grandi elettori chiamati ad esprimere la loro preferenza. Da venerdì pomeriggio invece basterà la maggioranza semplice, quella maggioranza (quota 504 su 1007 grandi elettori) che dista appena nove voti dal Pd più Sel forte di oltre 495 elettori. Una forza che rende il partito di Bersani il regista di questa scelta, o almeno lo dovrebbe rendere tale.
La formula dubitativa è infatti d’obbligo perché, a meno di due giorni dall’inizio delle votazioni, Bersani e soci tutto hanno fatto tranne che tenere le redini della partita. Il Pdl e Silvio Berlusconi hanno dettato le loro condizioni: un nome condiviso prima e una collaborazione di governo poi. In altre parole un nome non ostile al Cavaliere e un accordo per un governo Pd-Pdl. Condizioni forse ricevibili o forse no, ma comunque condizioni da quella che seppur numerosa è pur sempre una minoranza. Dall’altra parte Beppe Grillo e i suoi hanno trovato il loro campione: Milena Gabanelli. Una candidata che ha forse poche possibilità di salire al Colle, ma un nome che ha comunque ricompattato i 5 Stelle che si stavano dividendo tra chi avrebbe gradito Romano Prodi e chi Gino Strada, tra chi avrebbe voluto una convergenza con i democratici e chi no. M5S voterà per la Gabanelli, almeno per i primi tre voti in Parlamento e forse anche dopo.
E il Pd? Il Pd tace. O meglio fa un gran casino ma di esprimere un nome unico non sembra capace. Mentre il segretario incontra prima Berlusconi, poi Mario Monti, poi di nuovo Berlusconi, dentro al suo partito succede di tutto. Matteo Renzi, escluso dalle liste di quelli che il prossimo Presidente della Repubblica eleggeranno, ha bocciato come candidata la senatrice Anna Finocchiaro che, piccata, ha liquidato come miserabile il collega fiorentino. Franco Marini, altro papabile Pd, è stato bocciato anche lui dal rottamatore e anche lui non l’ha presa bene. Fette di partito premono perché si trovi un accordo e un candidato dal largo consenso mentre altri vorrebbero forzare la mano ed eleggere un candidato senza o quasi l’aiuto di nessuno. Da una parte si spinge perché ci si accordi con Berlusconi e dall’altra con Grillo. Alcuni vorrebbero un Presidente pronto a sciogliere le Camere e tornare al voto mentre altri un Presidente pronto invece a dare un incarico pieno a Bersani.
Il segretario rassicura: “Su queste cose qua facciamo una gran casino ma poi quando si tratta di decidere decidiamo”. Sì, ma quando? Il tempo di decidere è arrivato. E al Pd lo ricorda anche Ezio Mauro in prima pagina su Repubblica, non certo un nemico. Il partito democratico sembra una federazione, e sulla partita Quirinale ogni corrente dice la sua e rischia di andar separata. Sono i democratici senza ombra di dubbio gli attori principali di questa elezione: hanno la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato, hanno un gran numero di delegati regionali e hanno la possibilità di eleggere quasi da soli il prossimo Capo dello Stato. Eppure, nonostante questa forza, si stanno facendo chiudere in un angolo. Senza un candidato unico, credibile e capace di ricompattare le mille anime del Pd, da Renzi a Bersani ma non solo, il partito rischia di sbriciolarsi su candidati altrui.
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