Carmine Maurizio Festa: “Mi sgozzavano in strada e la gente mangiava ai Navigli”

navigliMILANO – “Sapere in carcere chi ha cercato di uccidermi non mi risarcirà dell’indicibile sofferenza che ho provato e che provo, ma attenuerà la vergogna di vivere in un Paese nel quale la violenza e l’indifferenza, nelle strade come nei Palazzi, hanno reso possibili i fatti allucinanti che ho descritto”.

Carmine Maurizio Festaaggredito e quasi sgozzato due anni e mezzo fa a Milano, ha affidato ad una lettera indirizzata a Repubblica il suo dolore. Non il dolore legato alla ferita fisica che ha subito ma il dolore causato dall’indifferenza mostrata da chi gli stava intorno e, a suo dire, dalle istituzioni. Indifferenza che ha reso possibile l’impossibile, essere aggrediti a colpi di bottiglie rotte in pieno centro di una grande città senza che nessuno alzi un dito e senza che a più di due anni di distanza si siano individuati i responsabili.

La storia di Carmine comincia nella notte del 28 agosto del 2011 e, per sommi capi, è lui stesso a ripercorrerla nella missiva indirizzata al quotidiano: “Quella notte passeggiavo con il mio collega e amico Gaetano quando un ragazzo mi accusò di aver toccato il sedere della sua ragazza. Non avendoli mai visti prima cercai di spiegare loro che si sbagliavano, ma l’amico che era con loro mi ficcò una mano in bocca, quasi a ricacciarmi in gola le parole. Poi prese la bottiglia di birra che gli aveva portato un altro complice, la spezzò con inaudita violenza sul collo del mio amico sfregiandolo e poi cercò di sgozzare me, non riuscendoci per puro caso. Infatti sono vivo unicamente perché non mi venne recisa, per un solo millimetro, la carotide e perché l’ambulanza arrivò pochi minuti prima che morissi dissanguato, portandomi all’ospedale Humanitas di Rozzano dove fui ricoverato con codice rosso e operato d’urgenza, subendo una trasfusione di tre litri e mezzo di sangue”.

Fin qui la cronaca, molto pulp e ancor più drammatica dei fatti di quella sera. Ma quello che a Carmine brucia dopo due anni e passa dai fatti non è tanto e non solo la terribile ferita di cui porta i segni, ma l’indifferenza mostrata dalle persone che erano intorno a lui quella sera a Milano e il fatto che, ancora oggi, gli aggressori non abbiano un nome.

“Sul marciapiede sul quale mi ero sdraiato agonizzante – racconta Carmine -, seduta ad un tavolo del ristorante davanti al quale si era consumata l’aggressione, una donna continuò impassibile a mangiare a pochi centimetri da me. So che sembra incredibile, ma non lo è, perché non è un ricordo mio, ero ovviamente sotto choc, ma di Enrico, il ragazzo che mi salvò la vita tamponandomi la ferita con una tovaglia, dopo aver visto il sangue fuoriuscire dal mio collo zampillando ad un metro di distanza. Sempre lui mi ha raccontato che, mentre cercava disperatamente di salvarmi, un tale gli disse con noncuranza ‘ma lascialo perdere, non vedi che tanto questo è morto?’, mentre un altro mi filmava, come nulla fosse, con un cellulare, cedendo poi le immagini alle televisioni che il giorno dopo diedero la notizia dell’aggressione, che i miei genitori appresero proprio così”.

Qualcuno, come si evince dal testo stesso della lettera, aiutò Carmine, in primis il ragazzo che con la tovaglia gli tamponò la ferita e, forse, gli salvò la vita. Altri invece, semplicemente, girarono la testa dall’altra parte per non vedere, per timore di finire anche loro nei guai o per chi sa quale altro motivo. Un’indifferenza che certo ha aiutato gli aggressori a farla franca. Nessuno di noi ha certamente voglia di affrontare un gruppetto di squilibrati che se ne va in giro con una bottiglia rotta ma, come scrive Maurizio, fa tristezza il fatto che il gruppetto in questione dopo aver quasi sgozzato un uomo ed averlo lasciato in un lago di sangue in una delle zone di Milano più affollate, anche e specie di notte, si sia potuto allontanare senza che nulla gli accadesse.

Carmine lamenta poi la latitanza, o meglio l’indifferenza mostrata della istituzioni nei suoi confronti.

“Nonostante il risalto dato dalla stampa, nei giorni seguenti, alla mia tragedia, non ho ricevuto nemmeno una parola di solidarietà dalla giunta e dal sindaco di Milano, di cui avevo festeggiato l’elezione, che qualche giorno dopo invece andò a trovare la vittima di un altro tentato omicidio. Ebbene, fino ad oggi i miei aggressori non sono stati né arrestati né identificati. I carabinieri della Compagnia Milano Duomo, responsabili delle indagini, mostrarono delle foto segnaletiche dei sospetti al mio collega dopo ben sei mesi, e solo dopo altri due mesi le mandarono, affinché le vedessi io, ai carabinieri di Avellino, dove sono nato ed ero tornato temporaneamente a vivere dopo la terribile sciagura. Questi ultimi furono gli unici a preparare con professionalità un identikit, grazie a un disegnatore che invece non c’era quando il mio collega venne convocato a Milano, sette mesi dopo l’aggressione, allo stesso scopo. Come se non bastasse, solo quattro mesi dopo l’accaduto venne mandato al Ris di Parma il filmato di una telecamera di sorveglianza che riprende in volto uno degli aggressori e di spalle gli altri, per cercare di individuarli, e il reato per cui si è indagato è stato a lungo solo quello di lesioni. Io ho una lunghissima cicatrice sotto il mento, ma una ancora più grande nell’anima, per la violenza gratuita che mi ha sconvolto la vita e per i modi e i tempi nei quali sono state condotte le indagini, tempi che hanno ulteriormente aggravato il dolore che ho sentito e che sento”.

In realtà gli inquirenti, anche se assolutamente senza risultati, come racconta anche il Corriere della Sera, delle indagini ne fecero.

“Ci furono anche passanti e clienti dei locali che fornirono ai carabinieri indicazioni per un identikit preciso che invece conduceva, si scoprì, a una donna di Bolzano – scrive il quotidiano di via Solferino -. La quale, la notte del 28 agosto, stava a casa sua. Pista bruciata. Lo sforzo investigativo è stato comunque poderoso: altri identikit, i rilievi sul posto, gli esami del Ris, sentire e sentire i presenti, analizzare i filmati delle telecamere del metrò più vicino (la stazione di Porta Genova) e dei locali dei Navigli. Un frammento di filmato evidenziava due-tre persone in compagnia d’una bionda, ma erano tutti di spalle. Ora, non è ovviamente escluso che il proprietario del profilo individuato dai carabinieri non compia prossimamente un reato diventando schedato. In Italia come nel resto dell’Europa, un suo minimo passo falso permetterà di risolvere il caso”.

ECCO LA LETTERA DI CARMINE MAURIZIO FESTA A REPUBBLICA:

CARO direttore, mi chiamo Carmine Maurizio Festa, sono il funzionario pubblico aggredito e quasi sgozzato, con una bottiglia rotta, la notte del 28 agosto 2011 a Milano, nella zona dei Navigli. Dopo aver letto che a pochi chilometri da lì una giovane donna ed un bambino di tre anni sono stati barbaramente uccisi, con coltellate alla gola, ho deciso di raccontare la mia storia.

Quella notte passeggiavo con il mio collega e amico Gaetano quando un ragazzo mi accusò di aver toccato il sedere della sua ragazza. Non avendoli mai visti prima cercai di spiegare loro che si sbagliavano, ma l’amico che era con loro mi ficcò una mano in bocca, quasi a ricacciarmi in gola le parole. Poi prese la bottiglia di birra che gli aveva portato un altro complice, la spezzò con inaudita violenza sul collo del mio amico sfregiandolo e poi cercò di sgozzare me, non riuscendoci per puro caso. Infatti sono vivo unicamente perché non mi venne recisa, per un solo millimetro, la carotide e perché l’ambulanza arrivò pochi minuti prima che morissi dissanguato, portandomi all’ospedale Humanitas di Rozzano dove fui ricoverato con codice rosso e operato d’urgenza, subendo una trasfusione di tre litri e mezzo di sangue.

Sul marciapiede sul quale mi ero sdraiato agonizzante, seduta ad un tavolo del ristorante davanti al quale si era consumata l’aggressione, una donna continuò impassibile a mangiare a pochi centimetri da me. So che sembra incredibile, ma non lo è, perché non è un ricordo mio, ero ovviamente sotto choc, ma di Enrico, il ragazzo che mi salvò la vita tamponandomi la ferita con una tovaglia, dopo aver visto il sangue fuoriuscire dal mio collo zampillando ad un metro di distanza. Sempre lui mi ha raccontato che, mentre cercava disperatamente di salvarmi, un tale gli disse con noncuranza «ma lascialo perdere, non vedi che tanto questo è morto?», mentre un altro mi filmava, come nulla fosse, con un cellulare, cedendo poi le immagini alle televisioni che il giorno dopo diedero la notizia dell’aggressione, che i miei genitori appresero proprio così.

Nonostante il risalto dato dalla stampa, nei giorni seguenti, alla mia tragedia, non ho ricevuto nemmeno una parola di solidarietà dalla giunta e dal sindaco di Milano, di cui avevo festeggiato l’elezione, che qualche giorno dopo invece andò a trovare la vittima di un altro tentato omicidio. Ebbene, fino ad oggi i miei aggressori non sono stati né arrestati né identificati. I carabinieri della Compagnia Milano Duomo, responsabili delle indagini, mostrarono delle foto segnaletiche dei sospetti al mio collega dopo ben sei mesi, e solo dopo altri due mesi le mandarono, affinché le vedessi io, ai carabinieri di Avellino, dove sono nato ed ero tornato temporaneamente a vivere dopo la terribile sciagura. Questi ultimi furono gli unici a preparare con professionalità un identikit, grazie a un disegnatore che invece non c’era quando il mio collega venne convocato a Milano, sette mesi dopo l’aggressione, allo stesso scopo. Come se non bastasse, solo quattro mesi dopo l’accaduto venne mandato al Ris di Parma il filmato di una telecamera di sorveglianza che riprende in volto uno degli aggressori e di spalle gli altri, per cercare di individuarli, e il reato per cui si è indagato è stato a lungo solo quello di lesioni. Io ho una lunghissima cicatrice sotto il mento, ma una ancora più grande nell’anima, per la violenza gratuita che mi ha sconvolto la vita e per i modi e i tempi nei quali sono state condotte le indagini, tempi che hanno ulteriormente aggravato il dolore che ho sentito e che sento.

Invio questa lettera, che è stato faticosissimo scrivere, nella speranza che la Procura della Repubblica di Milano, poiché le indagini sono ancora formalmente in corso, e il giudice per le indagini preliminari, al quale in mancanza di novità potrebbe essere richiesta a breve l’archiviazione del mio caso, facciano tutto il possibile per assicurare alla giustizia i colpevoli. Sapere in carcere chi ha cercato di uccidermi non mi risarcirà dell’indicibile sofferenza che ho provato e che provo, ma attenuerà la vergogna di vivere in un Paese nel quale la violenza e l’indifferenza, nelle strade come nei Palazzi, hanno reso possibili i fatti allucinanti che ho descritto.

 

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