Vasto, omicidio premeditato e complice? Chiamata al campo, notaio a dicembre

ROMA – Vasto, quello di cui si è reso colpevole Fabio Di Lello è stato un omicidio premeditato? L’uomo che ha ucciso con tre colpi di pistola (uno al cranio, due all’addome) dal carcere tramite il suo avvocato nega e sostiene la tesi della follia e rabbia improvvise. Le cose secondo l’omicida sarebbero andate così: un  casuale incrocio tra lui e Italo D’Elisa in strada, lui in auto, Italo in bici. Poi un non meglio precisato “sguardo di sfida” della vittima che avrebbe “provocato” la reazione di andare nell’auto da cui era sceso a prendere la pistola e sparare. In sostanza il classico “Non ci ho visto più”.

Dalle cronache e dalle indagini emergono però circostanze che se confermate raccontano di un omicidio a lungo covato, pensato, voluto e quindi premeditato. Due circostanze in particolare, l’una quasi accertata, l’altra tutta da verificare.

La prima: la disposizione da parte di Fabio Di Lello davanti a un notaio che tutti i suoi beni fossero trasferiti ai genitori. Disposizione che data da dicembre. Come chi si spoglia dei beni sapendo che presto potrebbe non disporne più. O anche come chi coltiva pensieri e piani suicidi/omicidi.

La seconda: dal campo in cui si stava allenando Di Lello sarebbe stato chiamato, chiamata al telefono che avvertiva di muoversi. E infatti Di Lello si sarebbe mosso in gran fretta per prendere l’auto e andare a intercettare (casualmente o su segnalazione) il percorso di Italo D’Elisa. Se davvero qualcuno ha fatto da vedetta a Di Lello, se quella chiamata c’è stata, allora l’omicidio “d’impeto” diventa meno sostenibile, ci sarebbe stato quanto meno un piano per intercettare la vittima. Un piano e un complice. Complice probabilmente non certo nella volontà di uccidere, ma nella voglia di punire, punire direttamente, sì.

In questa tristissima vicenda che “ha distrutto tre famiglie” come dicono i parenti di tutte e tre le famiglie in lutto un gesto di razionale umanità e di correttezza morale, un gesto, se si può dire, di giustizia. Il fratello di Roberta Smargiassi, la ragazza morta nell’incidente stradale provocato da Italo D’Elisa, è andato ai funerali di Italo ucciso da Fabio marito di Roberta. E’ andato per dire basta e spezzare la catena di odio che molti hanno alimentato e a cui molti si sono avvinti. Odio che istigava a “farsi vera giustizia da soli”. Odio che ancora dopo la tragedia cola dalla bile di chi inneggia al “giustiziere” e festeggia “uno di meno”.

L’uno di meno sarebbe Italo D’Elisa ammazzato a venti anni perché la magistratura non l’aveva messo in galera mentre il “tribunale popolare” lo voleva ai ceppi. La magistratura non l’aveva messo in galera perché a termini di legge non c’erano i motivi per arrestarlo. Non omissione di soccorso, si era fermato a soccorrere dopo l’incidente. Non alcol o droghe, non si era messo a guidare in condizioni di poter uccidere. Aveva saltato un rosso al semaforo e andava a 62 chilometri l’ora dove il limite è 50 l’ora (un paziente e preciso lettore di Vasto aveva chiesto perché avessimo scritto 50 l’ora e dove avessimo trovato la misura: 50 l’ora l’avevamo trovato scritto su un quotidiano, siamo andati a verificare dai verbali ed erano 62).

Era Italo D’Elisa colpevole di aver causato un incidente stradale da cui era derivata una tragica morte non voluta. Il tribunale del popolo, del fiele ignorante e prepotente l’ha condannato alla pena capitale da eseguirsi in pubblico. E’ lui, quel tribunale del popolo, il mandante. E resterà di sicuro a piede libero.

 

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