Container radioattivo nel porto di Genova, nessuno lo sposta, un anno di scaricabarile

Porto di Genova (Lapresse)

GENOVA – Il 14 luglio 2011 sarà un anno, si potrà celebrare un mesto compleanno in uno dei porti commerciali più importanti d’Italia. Porto di Genova tenuto in scacco da un unico, piccolo, solitario ma radioattivo container. Un’intera banchina, dove potrebbero attraccare le navi costrette invece a lunghe attese, occupata solo ed esclusivamente da un container. Nessuno lo tocca perché è radioattivo, nessuno sa tanto bene cosa farci e, in attesa di una decisione. Lui, il container, se ne sta lì, abbandonato e tenuto a distanza. Da un anno sotto il sole e le intemperie con il suo contenuto radioattivo. Il resto del mondo intorno a lui gioca da un anno con successo a far sembrare il vecchio Ponzio Pilato un giovane, energico e deciso campione nell’assumersi responsabilità.

La storia di questo container, uno scatolone d’acciaio da 20 piedi, sei metri di lunghezza, comincia il 14 luglio del 2010 quando sbarca al terminal Vte di Voltri. Viene da Jeddah, Arabia Saudita e ha fatto tappa a Gioia Tauro. Ufficialmente contiene materiali ferrosi ma, quando passa davanti agli strumenti di controllo del terminal, dedicati alla ricerca di materiali radioattivi, quelli impazziscono. Scatta l’emergenza e interviene il nucleo batterio-chimico-radioattivo dei Vigili del fuoco che sentenzia: cobalto 60, quello utilizzato negli ospedali per combattere il cancro. Si decide quindi di isolare immediatamente e temporaneamente il cassone lì dove si trova, nel bel mezzo del VI modulo del terminal, circondato da una barriera di altri contenitori pieni di acqua e cemento a difesa, ma anche a poche centinaia di metri in linea d’aria con le case del quartiere di Voltri.

Meglio non muoverlo senza le dovute precauzioni, il contenuto è troppo pericoloso. L’isolamento immediato dovrebbe preludere ad una soluzione altra e definitiva. Ma passano i giorni e le settimane e non succede nulla, o meglio succede molto che però non produce nulla. Si tiene l’immancabile vertice e si emette il comunicato di rito: il carico sarà rispedito in Arabia Saudita. Ma poi ci si ripensa, sarà smaltito in un sito specializzato in Germania. Ma anche questa soluzione non va bene, forse potrà essere isolato in sicurezza in Italia, magari lì sul posto, con l’ausilio di un robot che però non è mai stato utilizzato prima in casi analoghi. Intanto il container tiene in scacco il porto e incombe sulle case di quella fetta di Genova. Qualcuno azzarda i primi conti sui costi di bonifica. Un’azienda specializzata di Milano «spara»: un milione di euro. E chi paga? Vertici, summit, riunioni tecniche e commissioni ristrette: niente, non succede niente. Portuali e cittadinanza sono preoccupati per l’inquietante e rischiosa presenza e per l’operazione, naturalmente «indifferibile e urgente» che nessuno avvia.

Dopo nove mesi e un inverno passati sul molo, ad aprile, arriva a Genova don Gallo che insieme con i cittadini lancia un concorso pubblico per dare un nome al container che sta ad arrugginire con il suo carico sotto il sole e le intemperie. Qualsiasi cosa purché qualcuno si occupi di questo ingombrantissimo container. Il presidente dell’Autorità Portuale, Luigi Merlo, denuncia il paradosso di un porto dove i traffici sono in ripresa e gli operatori litigano per spartirsi pochi metri di banchina disponibile, mentre a Voltri un’area enorme è sequestrata da un container. «Questo è un Paese che vuole morire di burocrazia. Stiamo vivendo una situazione non degna di un Paese civile», urla ai giornali e alle televisioni, mentre tempesta il prefetto perché intervenga sulle «autorità costituite». Ancora niente da fare.

Il prossimo 14 luglio il container radioattivo festeggerà il suo primo compleanno, sperando che sia anche l’ultimo. Nulla riesce a smuoverlo. Né i rischi che nasconde per la salute e nemmeno i costi che genera occupando, da solo, un’area enorme. Lui, il container, così come la burocrazia italiana che non prende decisioni, sono inamovibili.

 

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