ROMA – “Una scelta (incompleta) d’avanguardia” la definisce su La Stampa Carlo Rimini, professore di diritto privato, parlando della riforma del divorzio e dell’arrivo del cosiddetto ‘divorzio breve’. D’avanguardia perché riforma un istituto regolamentato quasi mezzo secolo fa e che, per questo, era ormai assolutamente lontano dalla vita reale di oggi. Incompleto perché lascia irrisolte delle questioni giudiziarie e perché ha lasciato invariato un altro istituto, quello dell’assegno di mantenimento, creando il paradosso per cui, accanto al divorzio breve, rimane l’assegno lungo. Anzi a vita.
“Vale la pena di chiedersi – scrive Rimini – quale senso abbia che la nuova legge mantenga comunque l’istituto della separazione dichiarata dal giudice o accertata da un pubblico ufficiale. In molti Stati europei è previsto un periodo di separazione, ma è sufficiente una separazione di fatto che sono i coniugi stessi a dichiarare al giudice del divorzio. Il Parlamento ha evidentemente fatto una scelta frutto di un compromesso, costringendo i coniugi ad un doppio passaggio formale. Si poteva comunque realizzarla in modo tecnicamente più accurato. La nuova legge produrrà infatti un effetto paradossale che farà sprecare gran tempo ai nostri tribunali. Dopo un anno dall’inizio del giudizio di separazione, mentre ancora la causa sarà pendente per la soluzione delle questioni economiche o per quelle relative ai figli, ciascun coniuge potrà iniziare la causa per il divorzio e vi saranno quindi due giudizi contemporaneamente pendenti, magari di fronte a due tribunali diversi. Era tanto difficile prevedere che, dopo un anno dall’inizio del giudizio di separazione, questo si converta in divorzio se uno dei coniugi lo chiede? Una possibilità ben nota al diritto europeo. Si sarebbe evitato l’enorme dispendio di energie che comporterà la gestione di due fascicoli”.
Oltre a questo aspetto cui un professore di diritto dedica comprensibilmente molta attenzione, ce n’è un altro, anche questo sottolineato da Rimini, che tocca molto più in profondità le vite dei divorziati e dei divorziandi. Ed oltre le vite, tocca loro anche i portafogli. Stiamo infatti parlando dell’assegno di mantenimento previsto alla fine del matrimonio. Quell’assegno che il coniuge economicamente più forte deve all’altro perché il tenore di vita di questi rimanga all’altezza del periodo matrimoniale anche dopo la fine delle nozze.
Questo assegno e questo riconoscimento, strettamente connesso al divorzio, non è stato però riformato. Molto probabilmente non di una scelta ma di un altro compromesso sarà frutto questa decisione, ma è comunque una decisione che farà sentire il suo peso e che rende la riforma, attesa e condivisibile, incompleta. Se infatti viene stabilito che il matrimonio si può rompere, e lo si può fare in modo decisamente più semplice rispetto al passato, e in alcuni casi anche solo mettendo quattro firme in Comune, sfugge perché uno dei due ex dovrebbe vita natural durante finanziare l’altro.
Ed il punto è proprio in quel ‘vita natural durante’. Resta infatti vero che il matrimonio è un’unione anche economica, ed è per questo conseguenziale che anche la separazione ed il divorzio contemplino e regolamentino anche questo aspetto. Ma si poteva pensare, riformando la materia, anche ad una riforma dell’assegno a cui si sarebbe potuta togliere la caratteristica dell’interminabilità, pensando magari ad una forma di liquidazione una tantum.
“Oggi – spiega Rimini -, dopo il divorzio, il coniuge più debole ha diritto di percepire,a tempo indeterminato, un assegno mensile che gli consente di mantenere il tenore di vita matrimoniale. La norma significa che la solidarietà economica fra coniugi sopravvive al divorzio. Era una scelta comprensibile nel 1970. Oggi non ha invece alcun senso prevedere che si può divorziare in sei mesi, ma il legame economico dura tutta la vita. Il legislatore dovrebbe prevedere – ed è un peccato che l’occasione sia stata perduta – che al momento del divorzio un coniuge abbia diritto di ottenere dall’altro una somma che rappresenti una vera ed effettiva compensazione per le rinunce fatte a favore della famiglia. Il coniuge debole (spesso ancora la moglie) non cerca una assistenza vitalizia e parassitaria, ma pretende solo un’equa compensazione per i sacrifici fatti durante il matrimonio”.
Ovviamente quello in questione è l’assegno da coniuge a coniuge con la finalità esplicita di garantire a un coniuge il reddito e la qualità della vita prima dello scioglimento del matrimonio. Insomma il marito o comunque il coniuge più forte economicamente (talvolta è la donna) obbligato a mantenere l’altro coniuge, seppure ex. Fuori discussione è l’assegno la cui finalità è quella del mantenimento e cura dei figli. L’assegno di mantenimento ai figli è dovere primario che la legge deve proteggere. L’assegno di mantenimento del coniuge è figlio diretto di una cultura di una società dove l’unico mestiere di donna era quello di moglie e dove quindi la rottura del matrimonio equivale a disoccupazione e indigenza. Così non è più e non vi è ragione di mantenere una garanzia sociale che si è trasformata in un privilegio spesso ingiusto e foroce.
Le cronache sono piene di ex, soprattutto mariti, che lasciata la casa alla ex moglie e obbligati a versarle anche un terzo dello stipendio, dormano da mamma o in macchina o in caserma. E i Tribunali sono intasati da ex mogli che vogliono farla pagare all’ex partner e farsi pagare a vita (raramente il contrario ma accade). Ne derivano guerre, ingiustizie, perfino soprusi. Vero è che durante il matrimonio sono le donne a sacrificare più spesso carriera, lavoro e quindi reddito. Ma, poiché i matrimoni si sciolgono, proprio come accade quando si sciolgono i contratti di lavoro, sarebbe ora di pensare ad una indennità per la parte debole e abolire il vitalizio. Nella vita privata come in quella pubblica.