Fabio di Lello, omicidio su predica. Farsi giustizia da solo, Rete incitava, manifesti evocavano

VASTO – Fabio Di Lello ha ucciso per dolore e per vendetta. E per obbedire al “dovere” di farsi giustizia da solo. Un “dovere” predicato esplicitamente e implicitamente sulla Rete dove c’era chi (non pochi) incitava. La pressione a farsi giustizia da solo veniva dalle frasi scambiate nelle fiaccolate per Roberta Smargiassi, dai manifesti affissi in città che lamentavano lo scandalo della giustizia ufficiale che non c’è. Omicidio su predica quello di Fabio Di Lello mentre uccideva Italo D’Elisa, la predica dei molti e dei molti pulpiti, politici, mediatici e sociali, che benedicono come vera e buona la giustizia che ci si fa con le proprie mani.

Fabio Di Lello Ha ucciso per ‘onorare’ e rendere giustizia alla moglie investita ed uccisa da un ragazzo che, per questo, ancora non era stato punito. Ha ucciso armato dalla rabbia che covava e ha visto crescere in sé, ma anche dalla rabbia e dalla pressione sociale che gravava su di lui e che gli arrivava dalla Rete, dai gruppi su Facebook e della società che lo circondava in generale. Ha ucciso perché ha creduto l’omicidio di sua mano del reo cosa più giusta e nobile di un processo per omicidio stradale a carico di chi gli aveva ammazzato la moglie. E’ la storia di Fabio Di Lello e Italo D’Elisa.

Quanti colpi abbia esploso il primo per uccidere il secondo, l’assassino di sua moglie, lo stabilirà con esattezza l’autopsia. “Da un primo esame esterno risultano sicuramente più di due colpi – dice il direttore del reparto di Medicina legale della Asl Lanciano-Vasto-Chieti, Pietro Falco – in regione addominale e craniale”. Colpi che, a prescindere dal numero, sono stati sparati da Di Lello in virtù della sua voglia di farsi giustizia da solo. Una voglia che il giovane vedovo covava dal giorno in cui ha visto la sua Roberta uccisa, investita ad un incrocio da un auto che non ha rispettato un semaforo rosso.

E che si è alimentata con i tempi lunghi della giustizia italiana, tempi che per oltre 6 mesi hanno lasciato l’investitore libero, e soprattutto con quella che è stata una vera e propria forma di pressione sociale: fiaccolate, manifesti affissi in città, gruppi internet e Facebook in cui la voglia, sacrosanta, di punizione per un colpevole di omicidio stradale, si trasformava di fatto in incitamento all’omicidio d’odio.

Era il luglio dell’anno scorso, il 2016, quando Roberta Smargiassi perse la vita. All’incrocio tra corso Mazzini e via Giulio Cesare, a Vasto, venne investita mentre era in scooter da una Fiat Punto guidata da D’Elisa che non si era fermato al semaforo rosso. Dopo l’urto la Punto era finita contro una Renault Clio nella corsia opposta. Lo scooter, invece, su uno dei semafori all’incrocio e il corpo della donna era rotolato sull’asfalto. Roberta lavorava nel panificio del suocero, una delle panetterie più rinomate di Vasto. La sera dell’incidente, un venerdì sera, stava andando dai genitori in corso Mazzini. Era quasi a casa. “Mamma sto arrivando”, è stata l’ultima telefonata. Per lei non c’era stato niente da fare, le ferite erano troppo profonde ed è morta pochi minuti dopo il ricovero in ospedale.

“L’episodio – racconta Katia Riccardi su Repubblica – aveva destato l’attenzione dei cittadini che avevano chiesto giustizia. La magistratura di Vasto aveva aperto un fascicolo per omicidio stradale. Sarebbero dovute essere le telecamere della videosorveglianza a chiarire chi fosse il responsabile. L’indagine era stata chiusa a fine novembre. D’Elisa a breve avrebbe avuto la prima udienza dal gup. Dopo l’incidente era stato sottoposto a tutte le analisi e non era stato trovato né in stato alcolico né sotto effetto di sostanze. Ma da quel giorno, anche per il fatto che l’imputato della morte della moglie era a piede libero, gli ‘scontri’ sui social e tra le varie fazioni si erano fatti pesanti”.

Da allora, da quell’incidente, sono passati quasi 7 mesi. Mesi in cui Di Lello ha covato il suo dolore trasformatosi in rabbia che è diventata voglia di vendetta. Da non confondere con la voglia di giustizia che è cosa diversa dalla, per quanto umanamente comprensibile, vendetta. Ma se umanamente è comprensibile il dolore che diventa follia da parte di chi ha subito un simile trauma e una simile perdita, questo, nel caso di Vasto, è stato accompagnato dall’odio sociale, dalla pressione a trasformarsi in vendicatore come se questo fosse quasi un dovere.

“Non mi parlate della rete – commenta il pm a cui è affidata l’inchiesta -, sono assolutamente contrario a tutte queste forme di comunicazione. Vedo una gioventù malsana che non parla più affidandosi a commenti spregiudicati. Sono forme di violenza anche queste”. Forme che si sono realizzate in scontri sui social tra le varie ‘fazioni’, tra chi tifava per Di Lello e chi invece per l’investitore. Ma forme che sono diventate sostanza anche al di fuori della rete attraverso manifesti che chiedevano giustizia. Malumori nati dal fatto che D’Elisa fosse libero.

“C’è stata una campagna di odio da parte dei familiari di questa ragazza – dice l’avvocato Pompeo Del Re, difensore della famiglia D’Elisa -. Ora ne vediamo le conseguenze. Vedevamo manifesti dappertutto. Continui incitamenti anche su internet a fare giustizia, a fare giustizia. Alla fine c’è stato chi l’ha fatta. Si è fatto giustizia da sé. Tra l’altro dopo tempo, quindi una premeditazione”. “Era strafottente, quando incontrava per strada Fabio, Italo D’Elisa sgasava con la moto come per provocare” dice l’avvocato  di Di Lello. La guerra continua.

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