Francesco Pinna, morto per qualche euro l’ora. Ma era lavoro in regola

francesco pinna
Francesco Pinna

TRIESTE – “Non si può morire per 5 euro l’ora”. Di frasi come questa, dopo la morte di Francesco Pinna, il ragazzo rimasto sotto l’impalcatura crollata del concerto di Jovanotti, se ne sono sentite molte. “Morire per cinque euro l’ora” è apparso comprensibilmente intollerabile scandalo. Ma ha chiesto un amico e collega di Francesco: “Perché, per 30 euro invece si può morire?”. Ma, a parte il fatto che non si può dare un prezzo alla vita, il punto è che Pinna era un lavoratore regolarmente contrattualizzato, pagato 6.5 euro l’ora, come da contratto nazionale, e indossava tutte le protezioni previste dalla legge per il lavoro in un cantiere. Non è giusto, né necessario quindi, cercare un colpevole, che sia lo sfruttamento o la crisi. La morte di Francesco è una tragedia punto e basta. Morto sul lavoro, morto di lavoro. Ma anche di lavoro regolare, regolare paga, regolare caschetto.

Paolo Rizzi, presidente della cooperativa sociale OnStage, quella per cui lavorava Francesco, era anche lui l’altro giorno al palazzetto dello sport di Trieste, e anche lui è rimasto coinvolto nel crollo. Senza riportare conseguenze. Racconta Rizzi, e spiega, che “per l’entusiasmo che aveva, Francesco avrebbe lavorato anche gratis”.

Ma aveva invece un regolare contratto, e la cooperativa è la prima a volere che la verità su cosa è successo al palco che ha ceduto. Francesco, ricorda OnStage, sia dal punto di vista della sicurezza che della forma contrattuale, era tutelato. Aveva scarpe, guanti e casco, oltre ad un contratto: 6.50 euro l’ora, come sancito dal contratto collettivo nazionale per lavori di facchinaggio.

Mario Calabresi, direttore de La Stampa, rispondendo ad una lettera ricorda che “quando andavo a scuola io era una gara (per partecipare all’allestimento di un concerto), perché oltre a guadagnare due lire si poteva assistere al concerto gratis, e allora non c’erano né il caschetto e nemmeno un un regolare contratto ma solo una banconota allungata a tarda notte”. “Io non penso che questa storia sia figlia della crisi, anzi mi pare che non c’entri proprio nulla. Ci stiamo abituando a dare la colpa di ogni cosa terribile che accade alla “crisi” economica e sociale in cui viviamo e così non riusciamo più a distinguere le cose”.

E ha ragione Calabresi. In Italia si ha la tendenza a voler cercare sempre un colpevole, un qualcuno o un qualcosa su cui scaricare la responsabilità di quello che avviene, senza voler mai accettare che anche le tragedie fanno parte dell’ordine naturale delle cose. Dire che la morte di Francesco Pinna sia una morte “regolare”, è quanto di più politicamente scorretto si possa affermare. Ma è la verità. Le tragedie fanno parte della vita. Anche sul lavoro si può morire. E’ ovvio e giusto che esistano leggi e norme che tutelano e regolano la sicurezza sul lavoro, ed è un dovere pretendere che siano rispettate. Ma tutto questo non può cancellare il caso o la disgrazia.

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