ROMA –Mattino del 13 gennaio 2015, Giorgio Napolitano scambiando due parole con un bambino già saluta: “Sono contento di tornare a casa”. Tra 24 ore si dimetterà ufficialmente e in quel “contento” c’è sia la soddisfazione per il lavoro svolto che il sollievo per dover passare la mano. Giorgio Napolitano se ne va dal Quirinale, dalla presidenza della Repubblica per confessi motivi di età: troppa fatica, troppo carico per un uomo vicino ai novanta anni. Dopo nove anni di presidenza, con gli ultimi due assolutamente eccezionali e in qualche modo supplementari, è arrivato quindi il momento di scegliere il nuovo inquilino del Quirinale. Giorgio Napolitano. Domani 14 gennaio le sue dimissioni. Poi la convocazione delle Camere in seduta congiunta. Quindi le votazioni, i quorum, le alleanze, i franchi tiratori…
Una partita cominciata politicamente già da mesi e di cui ora si cominciano a delineare i contorni. E si comincia, quindi, a definire anche l’identikit di chi salirà al Colle e sarà, ed è questa la prima certezza, nei limiti in cui certezze esistono a questo mondo, un esponente del Pd.
Uno/a del Pd per una serie di motivi e vettori politici convergenti. Primo, solo una candidatura del Pd tiene insieme al momento del voto la gran parte dei 450 grandi elettori dello stesso Pd. Secondo, se i 450 grandi elettori del Pd invece andassero in ordine sparso la stessa elezione di un successore a Napolitano diventerebbe roulette dove la pallina gira e mai si ferma, anzi roulette russa alla tempia del parlamento e forse della legislatura. Terzo, se i 450 del Pd votano insieme, allora chiunque si aggiunga è aggiuntivo e non determinante, insomma non si verificano “inciuci” a destra e “ribaltoni” verso sinistra.
Sì, va bene, uno/a del Pd, ma chi? In pole position e non perché piaccia di più a questo o a quello ma perché meglio realizza un mix di requisiti politici e biografici è Walter Veltroni.
Le ragioni per cui le possibilità dei profili tecnici e dei candidati centristi sono drasticamente calate se non scomparse sono molte e per lo più politiche. Ma è utile cominciare da uno sguardo sui numeri che serviranno per eleggere il prossimo Capo dello Stato, perché è su questi che si fondano gli equilibri politici.
Serviranno, a partire dalla quarta votazione, i voti di 505 grandi elettori per scegliere il Presidente della Repubblica e, l’obiettivo dichiarato di Matteo Renzi, è quello di riuscire proprio alla quarta votazione a nominare il successore di Napolitano. In altre parole nessuno, nemmeno Renzi che della partita è il mazziere, immagina di poter chiudere la questione durante le prime tre votazioni che richiedono un quorum maggiore. Cinquecentocinque voti dunque. La maggioranza renziana, quella formata da Pd, Ncd, Scelta Civica e vari è forte di circa 600 grandi elettori. Forza Italia, con cui si punta ad un accordo per la scelta del nome, dispone di altri 150 voti. In altre parole il candidato che verrà proposto dal Pd, spetta ai democratici la scelta essendo il primo partito nonché la spina dorsale del governo, e sostenuto da Forza Italia disporrà sulla carta di 750 voti, 250 circa più di quelli richiesti. Un numero in grado di assorbire anche un’alta dose di franchi tiratori. In grado per esempio di digerire una defezione robusta degli oppositori Pd, non i 101 che affondarono Prodi ma quasi, e una defezione di mezza Forza Italia. Cinquanta franchi tiratori anti Berlusconi e cinquanta anti Renzi non scalfiscono la maggioranza, si reggono. E se ne reggono anche settanta e settanta.
Ma su un nome che viene dal Pd come farebbero i fieri oppositori di Renzi nel Pd ad organizzare un massiccio voto contrario? A parte i Pippo Civati e Stefano Fassina e Corradino Mineo e pochi altri che voterebbero qualsiasi cosa pur di votare anti Renzi, la nutrita opposizione nei gruppi parlamentari Pd se si organizzasse in battaglione di agguato al candidato Pd verrebbe travolta a furor di iscritti, militanti, elettori. Insomma un candidato Pd minimizza il rischio dei franchi tiratori.
Franchi tiratori Pd contro candidato di Renzi. Era lo scenario che molti sognano ma un candidato Pd rende improbabile questo scenario. Se infatti non è difficile immaginare l’esplosione dei democratici di fronte alla candidatura di un nome alla Monti, con ben più di 100 possibili defezioni, difficile è anche solo ipotizzare che un nome proveniente dalle fila dei democratici possa essere sgambettato in misura maggiore di quanto non fu Prodi. I 101 di allora sono considerati ormai il tetto massimo cui la fronda interna al partito può arrivare considerati i vari Civati. Quindi, ed è il ragionamento che alcuni attribuiscono al presidente del consiglio, meglio puntare su un nome interno.
D’altra parte, anche se un candidato del Pd porterebbe più defezioni nelle fila di Forza Italia, ed è questa l’altra parte del ragionamento politico, il danno sarebbe in questo caso limitato. Supponendo anche un maxi spaccatura, con un grande elettore su due che sceglie di disobbedire a Berlusconi, i voti che verrebbero a mancare sarebbero una settantina. Assorbibili. Anche se sommati ad eventuali altri 30/40 irriducibili anti Renzi tra i grandi elettori Pd. Dunque l’aritmetica al servizio della politica e viceversa.
“Allora chi del Pd?”, è la domanda che ne consegue. “Si parte dagli ex segretari – scrive Goffredo De Marchis su Repubblica -: Walter Veltroni, Piero Fassino, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani. Sullo sfondo rimane il fondatore Romano Prodi che però ad Arcore continua a essere visto come un nemico. Ci sono poi le “sorprese”: Anna Finocchiaro, Paolo Gentiloni, Pierluigi Castagnetti, Graziano Delrio, Roberta Pinotti, Arturo Parisi”.
Partiamo da quelle che De Marchis definisce “sorprese” e che, come la tradizione della corsa al Quirinale suggerisce, rimarranno probabilmente tali. Tutti nomi interni, con curriculum e storie personali in alcuni casi anche esemplari, ma tutti con un problema comune: ancillari. Sembrano tutti, chi più chi meno, profili troppo esili rispetto alla figura dell’inquilino non del Colle ma di palazzo Chigi. Hanno tutti cioè la caratteristica di rischiare di apparire, in caso di elezione, come messi lì in quanto sponsorizzati da Renzi. Ottimo motivo per essere esclusi dalla corsa.
Altro discorso, ovviamente, per gli ex segretari del Pd che rappresentano quindi a questo punto del ragionamento l’ultima scrematura prima della scelta finale. Franceschini, alleato di Renzi nel partito, non utilissima caratteristica in questa circostanza. Bersani, chiaramente, non può andare: è improponibile per “antagonismo manifesto” nei confronti dell’attuale premier-segretario. Piero Fassino, può essere, ha qualche chanche. Po i due nomi di maggior spessore: Prodi e Veltroni. Sul primo, che ha il miglior profilo per la Presidenza probabilmente, pesa però l’ultima probabile resistenza di Berlusconi che, seppur ormai costretto politicamente a subire le scelte di Renzi, non è però disposto a cedere sul nome dello storico avversario.
Rimane Walter Veltroni. E non che rappresenti una scelta all’insegna del meno peggio. L’ex segretario Pd porta infatti in dote un lunga lista di qualità politiche. In primis è un renziano ante litteram ma non è un renziano “di rito e culto”. E’, in altre parole, politicamente vicino alle posizioni di Renzi ma da prima che Renzi apparisse. Possiede poi Veltroni un curriculum appropriato per il Quirinale: ex vicepresidente del consiglio, ministro, dalla lunga storia politica ma, per di più, anche da qualche tempo “fuori dal giro” e relativamente lontano dalla casta. Sufficientemente anziano e sufficientemente giovane. E poi, oltre ad essere poco attaccabile dall’interno del Pd e accettabile da Forza Italia, raccoglierebbe anche i voti di qualche 5Stelle particolarmente autonomo. L’identikit perfetto, per l’elezione quasi troppo…
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