Juve-rigore, le ragioni del cuore: anche se c’è, al 93° non si fischia

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 12 Aprile 2018 - 11:52 OLTRE 6 MESI FA
juve rigore real

Le proteste dei giocatori della Juve dopo il calcio di rigore dato al Real nei minuti di recupero

ROMA – Juve, le ragioni del cuore: rigore (anche se c’è) al 93° non si fischia. Rileggere bene e a freddo le parole e gli animi e le azioni e i gesti di giocatori e dirigenti dopo la partita di Madrid, c’è la costante e convinta rivendicazione di una legge, un regolamento, un dovere… Legge, regolamento e dovere che avrebbero dovuto trattenere l’arbitro dal fischiare il rigore a favore del Real Madrid. Perché, anche se c’è, un rigore a quel punto non si dà.

Tutte le notizie di Blitzquotidiano in questa App per Android. Scaricatela qui

Tutte le notizie di Ladyblitz in questa App per Android. Scaricatela qui

Dice Buffon: “Azione dubbia al 93°, non puoi avere il cinismo per distruggere una squadra che ha messo tutto in campo, un essere umano non può fischiare uscita di scena di una squadra a quel punto”. Dunque dice Buffon che il rigore forse c’era e forse no ma comunque non conta ci fosse o no. Quel che conta è che siccome la Juve aveva meravigliosamente rimontato i tre gol di svantaggio il rigore, anche se c’era, a quel punto non andava fischiato. In nome delle…ragioni del cuore.

Dice infatti ancora Buffon: “Chi fischia quel rigore al posto del cuore ha un bidone di spazzatura, una decisione di animale”. Dunque non il regolamento del calcio, le regole del gioco, l’oggettività o meno di un’azione fallosa di Benatia in area appunto di rigore, Buffon invoca altro. E cioè la regola secondo la quale se sono stato bravo a rimontare tre gol il rigore contro di me, anche se c’è, non me lo merito. E in nome di questa regola non rispettata dall’arbitro Buffon l’arbitro lo manda “a cagare” in diretta mondiale.

Dice Benatia: “Era fallo ma fischiare all’ultimo secondo è assurdo, l’ho toccato, non l’ho spinto”. Anche qui quel che conta davvero nelle parole pensieri dei giocatori juventini non è tanto il rigore ci sia o non ci sia, quel che conta è che all’ultimo secondo non si dà. O almeno non si dà quando la Juventus ha rimontato tre gol al Real Madrid al Bernabeu.

E’ questo il succo genuino del dolore juventino. Cui si aggiungono, purtroppo, la volgarità di Chiellini che chiede in campo ai giocatori del Real quanto abbiano pagato l’arbitro e la pensosità finto astuta di Andrea Agnelli che evoca il complotto vanitoso di Pier Luigi Collina designatore, complotto diretto a danneggiare le squadre italiane per far bella figura di imparzialità. Chiellini ha la robusta (ma  non totale) scusante dell’adrenalina in campo appunto. Andrea Agnelli no, l’ira vendicativa non è una scusante. Anche se magari fa l’effetto…in ira veritas: dalle parole del dirigente della Juve si deduce che considera l’imparzialità per natura una recita, una posa.

Ma non è Agnelli il succo genuino del dolore juventino. Il succo sta nell’invocare l’arbitro di Madrid tenesse conto della partita di andata a Torino, nell’esigere l’arbitro non fischiasse il rigore di Benatia perché così si faceva “stupro” della grande partita bianconera al Bernabeu. Il succo sta in un’idea ferma e radicata, diventata addirittura valore sociale. Idea mica solo juventina e mica solo calcistica che grazie alla Juve a Madrid si erge e si proclama ferita e stuprata. L’idea che le regole…si interpretano.

Si interpretano prima di applicarle le regole. Altrimenti è cattiveria e sopruso. Si interpretano prima di applicarle le regole, si interpretano con le ragioni del cuore. L’unico guaio di questa nobile tenera idea è quando vai ad applicare le ragioni del cuore. Il cuore di chi? Ce n’è sempre in campo più d’uno, e allora il cuore di chi? Proprio per rispondere a questa domanda sono stare inventate le regole, non solo del calcio. Regole che non prevedono le ragioni del cuore proprio perché il cuore non tollera e conosce regole.

Il dolore juventino è il dolore di una cultura, di un carattere nazionale che vive la regola come un fastidio obbligato, di cui non si può fare a meno ma non è che bisogna starci sempre e per forza. Quel carattere nazionale incomprensibile appieno altrove e che faceva dire a suo tempo dalle parti della perfida Albione che “gli italiani perdono le guerre come fossero partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre”.