Il Tesoro che gli Enti Locali non mollano: le società di servizi, l’oro della politica

ROMA – Dovevano essere ridimensionati e riorganizzati, dovevano essere la parte del paese e delle istituzioni che maggiormente avrebbe dovuto reggere il peso della manovra bis  ma, alla fine, gli enti locali la spunteranno ancora una volta. Gli amministratori locali, per una volta uniti a dispetto di qualsiasi differenza di appartenenza politica, hanno alzato la voce. Questa manovra proprio non gli andava giù. Si sono organizzati, hanno manifestato a Roma e Milano, a qualcuno è anche venuta la stravagante idea di autoproclamarsi principato per protesta e, alla fine, il Governo darà loro ascolto. Ma quello che ha mosso, che ha fatto scattare come un solo uomo la marea di amministratori locali di vario grado, non è solo ed esattamente senso civico e voglia di difendere gli interessi cittadini. In gioco ci sono anche altri interessi, seguiti di solito da molti zeri. E, su questo, non sono disposti a mollare.

Le provincie sotto i 300mila abitanti dovevano sparire? Si farà, ma con una bella legge costituzionale, quasi sinonimo di mai. Sei miliardi di euro, a tanto dovevano ammontare i tagli agli enti locali. Troppo. Meglio aumentare l’Iva di un punto, misura che porterebbe nelle casse dello Stato circa 4 miliardi di euro, e tagliare solo 3 miliardi agli enti locali. I comuni con meno di 3000 abitanti dovevano essere un ricordo? Invece rimangono, avranno l’obbligo di accorpare le spese, lo avevano già ma non lo facevano, continueranno a non farlo. Tutti punti della manovra  caduti sotto il tiro incrociato della Lega e degli amministratori locali che temevano di perdere, con i tagli e le riforme, un indotto fondamentale delle loro attività: le società che erogano i servizi pubblici. Una miniera d’oro e potere.

L’Ocse sottolinea, per esempio, come il costo dei servizi pubblici in Italia cresca nettamente più del costo della vita. A giugno si è registrato per questi un rincaro del 4,8%, oltre due punti sopra l’inflazione. Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali, escludendo quelli energetici, sono salite del 54,2% a fronte di una crescita dei prezzi pari al 23,9%. Ed è stato un aumento astronomico anche rispetto alla media di Eurolandia, dove l’incremento delle tariffe si è attestato invece al 30,3%. E la Banca d’Italia dice che nel nostro Paese i principali servizi hanno un cosiddetto «mark up», cioè la differenza fra il prezzo della prestazione erogata e il suo costo, superiore del 19,2% alla media dell’area euro. È ancora via Nazionale ad affermare in un proprio studio che riportando quel dato al livello europeo si potrebbe ottenere nei primi tre anni una crescita del Prodotto interno lordo pari al 5,4%. Stima che porta la Confartigianato a calcolare un Pil aggiuntivo di 36,7 miliardi per il solo primo anno seguente a quello nel quale fosse applicata una vera liberalizzazione di questo mercato. I dati della Banca d’Italia sul «mark up» sono eloquenti. Le aziende che erogano servizi pubblici hanno sulla carta profitti ben più elevati della media europea, sebbene parametri di efficienza e conto economico non siano certo migliori. Con tutta evidenza la causa va ricercata in un costo della politica indiretto che fa leva proprio sulla mancanza di concorrenza. La prova? Fra il 2003 e l’anno che ha preceduto la nuova Grande Depressione, le aziende pubbliche locali hanno letteralmente allagato l’Italia. Nel 2007 l’Unioncamere ne ha censite 5.152, numero superiore dell’11,9% a quello di quattro anni prima. In dieci anni, dal 1999 al 2009, le imprese controllate dagli enti locali, ricorda la Confartigianato, hanno raddoppiato il loro peso sull’economia, dal 2,3% al 4,6% del Prodotto interno lordo. Tutto questo mentre la spesa delle amministrazioni scendeva dal 5,8% al 5,6% del Pil.

Le province, i comuni, non potevano certo rimanere con le mani in mano di fronte alla possibilità di perdere tutto questo. Passando dai dati generali alle realtà locali si scopre poi una stranezza tutta italica: dove più i servizi sono cari meno sono efficienti. La città italiana dove la tassa sulla spazzatura è la più alta in assoluto è Napoli. Nel capoluogo campano si paga una tariffa sui rifiuti superiore del 48,4 per cento alla media nazionale. E quasi due volte e mezzo più cara rispetto a Firenze. Palermo, stando alle elaborazioni dell’ufficio studi della Confartigianato effettuate sulla base dei dati del ministero dello Sviluppo economico e dell’Unioncamere, è la città dove il trasporto pubblico, pur non rappresentando un esempio d’efficienza, è invece mediamente più costoso: 515 euro per dieci abbonamenti mensili e 48 biglietti orari. Non c’è confronto con Genova (398), al secondo posto, ma nemmeno con Napoli (396), al terzo. Senza parlare di Milano: 338 euro, il 52,3% in meno. Prendendo infine in esame un pacchetto di servizi pubblici locali (oltre al trasporto anche i rifiuti, l’acqua e l’energia) Palermo è la città più cara d’Italia, superata solo da Cagliari (3.108 euro l’anno pro capite) che deve però fare i conti con una salatissima bolletta del gas. Nel capoluogo siciliano ogni cittadino sostiene mediamente, dicono i dati del 2009, un costo di 2.633 euro l’anno, contro 2.559 di Genova e 2.537 di Napoli. A Milano si spende il 42,6% meno che a Cagliari e il 20,8% meno che a Palermo. Ancora più impressionante, tuttavia, è il peso della spesa pro capite sul Pil «individuale». Il costo dei servizi pubblici locali si «mangia» a Napoli il 16,1% del Prodotto interno lordo pro capite, contro il 6% di Milano, l’8,3% di Firenze, il 7,1% di Bologna e il 7,6% di Roma, che certo non è fra le città meno care (2.461 euro). Al Nord va un po’ meglio rispetto che al meridione, almeno in quanto ad efficienza, e questo rende la torta ancora più appetibile e da difendere. La crescita della spesa si è infatti rivelata particolarmente impetuosa proprio al Nord e nelle Regioni autonome. Nella provincia di Trento le aziende pubbliche locali rappresentano ormai il 13,3% al Prodotto interno lordo, avendo aumentato in un decennio il proprio peso di ben 8,6 punti. In Valle D’Aosta il loro contributo all’economia ha raggiunto l’11,3% (+8,3 punti), in Liguria l’8,2%, nel Friuli-Venezia Giulia l’8,2%, nella Provincia di Bolzano il 7,2%, in Emilia-Romagna il 6,9% e in Lombardia il 6,1%. Un monitoraggio compiuto dall’Unioncamere su 4.018 di queste aziende, escludendo quelle finanziarie e in liquidazione, ha dimostrato che nel Centro Nord ognuna di esse ha chiuso il bilancio con un utile medio di 368.746 euro, contro un buco medio di 251.424 euro al Sud.

E se nel Centro Nord gli utili per addetto sono cresciuti, nel quadriennio preso in esame, di ben tre volte, passando da 2.147 a 6.500 euro, nelle Regioni meridionali il deficit pro capite si è ampliato del 14,7%, da 2.822 a 3.239 euro. Il fatto è che mentre le aziende pubbliche locali del Sud aumentavano del 14,6% il costo del personale anche a causa di tre assunzioni in media per impresa, le loro consorelle centrosettentrionali lo diminuivano del 5,8%. Sembrerebbe che le suddette aziende, oltre a fornire servizi, al Nord producano denaro e al Sud potere. Due argomenti molti cari a tutte le amministrazioni locali. Una menzione a se merita poi la gestione dell’acqua, oggetto dell’ultimo referendum, dove, come rivelano i dati pubblicati dalla Confartigianato, gli investimenti non riescono a modificare sostanzialmente una situazione davvero disastrosa: mix letale di una rete colabrodo e un’evasione tariffaria al limite dell’incredibile. Nel 2008, a fronte di oltre 8,1 miliardi di metri cubi immessi nella rete di distribuzione, quelli fatturati sono stati poco più di 5 miliardi e mezzo. Il 32% dell’acqua potabile, quantità che il rapporto dell’organizzazione degli artigiani paragona alla portata annuale del fiume Brenta, si volatilizza. L’elaborazione contenuta in quello studio, fatta sulla base dei dati Istat, mostra come ancora tre anni fa in Puglia per ogni 100 litri di acqua «erogata», se ne immettessero nella rete ben 87 di più. Non molto meglio andava in Sardegna, con 85 litri, in Molise (78), Abruzzo e Friuli-Venezia Giulia (77). Gli amministratori locali non si sono però lasciati intimidire da un Governo che, attraverso tagli alla spesa, metteva a rischio il loro monopolio in questi settori. A Napoli si continuerà a pagare più che nel resto d’Italia per avere i rifiuti comodamente in vista sotto casa e tutti noi continueremo a pagare più degli altri cittadini europei per dei servizi, mediamente, peggiori.

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