Antropologia del renzismo, “esprit florentin” ma di provincia, dopo la “morte delle ideologie”

di Antonio Buttazzo
Pubblicato il 9 Novembre 2017 - 08:15| Aggiornato il 2 Ottobre 2018 OLTRE 6 MESI FA
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L’ex Premier, Matteo Renzi, durante la registrazione del programma condotto da Bruno Vespa ‘Porta a Porta’ (foto Ansa)

ROMA – Il tema non è nuovo ma torna di stringente attualità. Riguarda l’interrogativo che si pone (o dovrebbe porsi) la sinistra, intorno alla natura non solo “ideologica” ma soprattutto “antropologica”del renzismo. Renzi era un chierichetto di vaghe simpatie democristiane quando la DC era già sparita. In braghette, giocava a fare il boy-scout perché immaginava potesse tornargli utile. Si è iscritto al Partito Popolare Italiano – poi confluito nella Margherita – e da li ha cominciato la sua carriera politica come presidente della provincia di Firenze e poi come sindaco di quella città.

Quando la Margherita confluisce nei DS, poi PD, lui si trova a far parte di un partito della grande famiglia socialista europea. Di certo non lo ha scelto. Renzi è nato ai margini della dorsale appenninica tosco-emiliana, la zona più rossa d’italia. È per questo che si trova collocato a sinistra, un’area politica che da quelle parti ha sempre gestito il potere. Fosse nato ad Agrate Brianza avrebbe aderito a Forza Italia. Se avesse visto la luce a Caltanissetta, avrebbe conteso ad Alfano la guida di qualche movimento centrista post democristiano. Non è neanche escluso che a Treviso avrebbe capeggiato la Lega. Tutto pur di governare, il potere per il potere, tipico esprit florentin.

Ha approfittato dello scivolone di Bersani, in difficoltà per la disfida lanciatagli via streaming dalle seconde linee del movimento di Grillo, per soffiargli il posto ed il partito. Lo aveva sfidato, perdendo, alle prime primarie organizzate da un partito che aveva messo all’asta la leadership, abbandonando il “centralismo democratico” inventato da Berlinguer.

Ideologicamente poco equipaggiato, ha agitato per l’aria il randello di un giovanilismo confuso e niente affatto di sinistra. Aveva forgiato l’attrezzo in una stazione ferroviaria dismessa sui viali fiorentini, intitolata ad un granduca illuminato che invero lo ha finora poco ispirato. Tra cianfrusaglie d’antan su di un palco allestito volutamente alla meno peggio, dava vita ad un happening rancoroso contro l’elite del Partito.

Accucciati in platea, al posto dei grigi Fassino, D’Alema o Bindi, sedevano imprenditori “a’ la page” come Oscar Farinetti – dispensatore ufficiale world wide di manicaretti politicamente corretti – e banchieri rampanti come Davide Serra, garante presso la city delle buone intenzioni del golden boy fiorentino. Intorno a Renzi stavano la Boschi e la Manzione, Lotti e Sensi, il giglio magico che lo segue da Firenze, giovani ambiziosi e molto poco politicizzati, nessuno dei quali mai collocato a sinistra. Quella platea inneggiava alla rottamazione dei vecchi del partito. Quasi tutti peraltro hanno accolto la richiesta renziana e si sono fatti da parte.

Al loro posto subentrava una classe politica ai più sconosciuta, gente che con la sinistra non aveva avuto niente a che fare. Pertanto, quando le anime belle del PD, quelli per intenderci che vengono dalla sinistra del Partito, magari dal PCI, certamente non entusiasti di avere come colleghi di scranno Denis Verdini, pensano che sia meglio “cambiare il partito dal di dentro” piuttosto che rivendicare un passato ed una storia che sembra non appartenenergli più, è bene che sappiano che quel Partito, come loro lo hanno vissuto, è oramai finito. Al suo posto c’è una macchina propagandistica-elettorale funzionale al caro leader. Al volante della quale c’è uno che per trovare consenso ed occupare il potere è disposto a tutto. Non esistono schemi ideologici o barriere etiche insuperabili. È uno degli effetti della tanto celebrata “morte delle ideologie”. Di sicuro non uno dei migliori.