Coprifuoco a Roma, resconto di un giro nella città deserta e obbediente. Carabinieri corretti e cortesi

Coprifuoco a Roma, resoconto di come i cittadini della Capitale smentiscono i luoghi comuni. Tutti a casa. E le Forze dell’Ordine attente, discrete e cortesi col cittadino.

Coprifuoco a Roma, ho voluto vedere e controllare come reagivano i romani alla chiusura obbligatoria e anticipata di bar e ristoranti. E all’ordine di non uscire di casa fra le 22 e le 5 del mattino, salvo casi di forza maggiore. I cittadini della capitale si rivelano disciplinati e obbedienti alla legge. Forse i veri attori della movida sono i pendolari della politica e delle lobby, che ora dormono, o violano il Dpcm, nelle loro città di provenienza. Ecco cosa ho visto.

Venerdì sera, esco da casa e incontro subito una ragazza col cane. 
Sono appena passate le 22 del 6 novembre e nel Lazio, colorato di giallo dal Governo, ha inizio il coprifuoco. Come impropriamente viene chiamata questa sorta di confinamento imposta per DPCM. In realtà quella ragazza sarà l’unica persona che vedrò portata a spasso dal suo amico a quattro zampe. Quindi, rassicuro il garagista che, perplesso, mi chiedeva se non avessi dimenticato il divieto di circolazione notturna. Controllo di non aver dimenticato l’autocertificazione, salgo in macchina e mi dirigo verso il centro storico.

Via Nomentana è libera, i pochi mezzi circolanti sono gli ultimi autobus in servizio e qualche motorino che, procedendo nella direzione opposta alla mia, ho immaginato fosse diretto verso casa. Pochi minuti e sono a ridosso della ZTL, il venerdì sera insolitamente inattiva.

Le luci di Via Barberini, con gli insopportabili neon delle Compagnie Aeree di tutto il mondo perennamente accese almeno dagli anni ‘50, sono l’unico segno di vita in un’area della città solitamente movimentata.
Stessa cosa in Via Veneto.
Sarà la crisi economica o i sigilli che la direzione distrettuale antimafia ha apposto ai tanti locali della Dolce Vita, in realtà la più iconica tra le vie romane già da tempo rimanda un’aria di tristezza.

Non c’era bisogno del lockdown.
Né nell’una né nell’altra strada, tra le più trafficate di Roma durante la notte, incrocio autovetture.
A circolare sono solo i mezzi della nettezza urbana.
Se si esclude qualche rider che arrancava faticosamente in bicicletta per le strade in salita o che percorreva pericolosamente quelle in discesa al quartiere Pinciano, per le vie non ho incontato nessuno.

A Via del Quirinale, qualche pattuglia delle forze dell’ordine presidia il palazzo presidenziale, ma gli agenti non sembrano interessati allo scarso transito automobilistico.

Attraverso Via 4 novembre, sventrata dai discussi lavori di manutenzione stradale dopo la decisione di Raggi di eliminare i sanpietrini, gli storici “serci” che pavimentano le strade di Roma dal XVI secolo. E arrivo a Piazza Venezia.

Il Vittoriale appare ancora più grande nel silenzio e nell’assenza totale del traffico.

Attraverso Via del Plebiscito costeggiando Palazzo Grazioli e arrivo rapidamente alle spalle dei palazzi romani del potere .

Riesco a parcheggiare di fronte al teatro Valle, lì dove non mi era più accaduto di poterlo fare negli ultimi trent’anni e mi avvio a piedi verso Piazza Navona, percorrendo uno spettrale Corso Rinascimento.

Mi attardo ad Sant’Ivo alla Sapienza e ricordo che era l’antica sede dell’Università di Roma. Il silenzio affina i sensi, la memoria soprattutto. Più di una volta, venerdì notte, mi sono stupito nell’accorgermi di quanti ricordi mi abbia evocato il passaggio davanti a luoghi che distrattamente osservo spesso, senza però che suscitino in me particolari sensazioni.

Venerdì notte è stato diverso.
Tutto è fluito tra le mie reminiscenze in modo più netto.
Dall’albergo del centro, davanti al quale sarò passato centinaia di volte. Dove 25 anni prima avevano arrestato un mio cliente colombiano. Cosa che francamente non ricordavo più. All’incrocio davanti al reparto di un ospedale pediatrico oncologico. Dove 40 anni prima, sotto un rabbioso sole di fine luglio, prendevo a calci la mia Fiat Cinquecento che mi aveva mollato per strada, suscitando le risate dei bambini lì ricoverati.
Pensa che scemo.

Comunque, attraverso la strada e arrivo in una Piazza Navona avvolta in un silenzio irreale.
Una sensazione di indicibile straniamento.
Inizio a fare qualche foto sicuro che non avrei mai più avuto l’opportunità di immortalarla così, nella sua interezza. Senza che tra l’obiettivo e le fontane del Bernini si frapponesse ostacolo umano.

Mi avvio ad attraversarla quando scorgo una pattuglia di Roma Capitale ferma a metà della piazza.
Le passo davanti, un rapido e reciproco saluto, ma non mi viene chiesto di visionare l’autocertificazione.

Mi avvio verso il Pantheon, passando davanti le garitte dei Carabinieri davanti a Palazzo Madama. Neanche mi guardano.

Arrivo dopo pochi metri di fronte al Pantheon.
Resto incantato da tanta, antica, bellezza.
Il silenzio è totale, ogni tanto interrotto solo dallo stridio di qualche gabbiano.
In quella piazza, dove in er pre covid faticavi a camminare senza essere spintonato da qualcuno, sono completamente solo.

Faccio il giro, quando mi accorgo che invece, piuttosto discretamente, senza disturbare la prospettiva architettonica, una camionetta dell’esercito staziona su di un lato della piazza. Due giovani militari fumano e chiacchierano tra di loro senza curarsi di me.

Dopo un po’ sento un ronzio sopra la testa. Alzo il capo e scorgo un piccolo drone manovrato da due ragazzi dall’altro lato della piazza. Erano due giovani giornalisti tedeschi che stavano realizzando un documentario.
Mai stati prima a Roma, hanno avuto il privilegio di poterla vedere come forse ha potuto osservarla il loro connazionale Goethe, durante il suo celebre “italianische reise”.

Mi sposto verso piazza Montecitorio, e, davanti le transenne che la delimitano, vedo una tenda da cui provengono delle voci.
Scorgo lì davanti un cartello e capisco che sono i familiari dei pescatori detenuti in qualche porto della Libia.
Un porto evidentemente non tanto sicuro, a dispetto di una certa area politica che suggerisce di mandare lì i migranti alla deriva nel Mediterraneo.

Passo avanti a due carabinieri che mi ignorano, faccio il giro intorno ad alcune transenne e arrivo a Piazza Colonna.
Ho davanti Palazzo Chigi illuminato dai fasci di luce tricolore. L’unico punto dove c’è una discreta presenza umana.
Per scattare qualche foto mi avvicino ad una transenna e, finalmente quella notte, le forze dell’ordine si accorgono della mia presenza. Per dirmi di non attraversare la piazza, cosa che peraltro non avevo in mente affatto di fare.

Mi avvio quindi su Via del Corso che, senza tema di smentita, posso dire di non aver mai visto deserta in vita mia.
Chiunque sia stato a Roma non può non aver notato lo sciame di turisti e cittadini che l’attraversano a tutte le ore del giorno e della notte.

La lunga e deserta prospettiva che ti si parava davanti aveva qualcosa di spettrale.
Quindi torno indietro e procedo in direzione di Campo de Fiori, cuore della movida romana.
Anche lì, vuoto e silenzio assoluto.

Ero l’unico in quella piazza, solitamente, rumorosa e affollata.
Si staglia nel silenzio più assoluto solo la statua di Giordano Bruno, eretta nel luogo dove al frate domenicano, gli sgherri del confratello Roberto Bellarmino, appicarono 420 anni fa un allegro fuocherello sotto i piedi. Per aver osato dire che “la libertà del pensiero è più forte della tracotanza del potere”. A Roberto Bellarmino, per questo ed altri crimini, lo hanno fatto prima cardinale e poi pure santo.

Mentre rifletto sul fatto che probabilmente il nolano si stava godendo finalmente quella pace che i suoi contemporanei non gli hanno certo concessa, si avvicina verso di me una macchina dei Carabinieri.

Con grande cortesia, il capo pattuglia mi chiede l’autocertificazione e un documento che gli fornisco unitamente al tesserino di giornalista. Avevo, per di più, anche una lettera d’incarico del direttore di Blitz quotidiano.
Rapidamente esaminano il tutto e appongono sulla autocertificazione una dichiarazione nella quale attestavano di avermi già identificato e di aver acquisito telematicamente i documenti giustificativi della mia circolazione notturna.
Nel caso di un successivo controllo, avrei mostrato solo la loro attestazione.

Quella sera, aggiunge il capo pattuglia, prima di salutarmi con cortesia, avevano incrociato solo giornalisti e non avevano elevato neanche una contravvenzione.
Ne ho preso atto con soddisfazione.

Mi avvio quindi verso Piazza Farnese, l’ambasciata di Francia è presidiata dalle camionette dell’esercito, ma praticamente anche lì c’erano solo loro.

A differenza di Campo de Fiori però, piazza Farnese è al buio.
Ciò contribuisce ad amplificare quella sensazione di straniamento che mi accompagnerà tutta la notte.

Percorrendo Corso Vittorio Emanuele, attraverso il ponte e arrivo, sull’altra sponda del Tevere, a Via della Conciliazione. Lo stradone, da cui si scorge Piazza San Pietro, è lungo circa 400 metri, che ho percorso incrociando solo…gabbiani.

Arrivato ai portici prospicienti Piazza San Pietro, inizio a scorgere quelli che l’obbligo di restare a casa non hanno potuto rispettarlo. Perché una casa non l’hanno. Da qualche tempo Papa Bergoglio gli permettere di dormire tra l’edificio delle Edizioni Paoline e il colonnato del Bernini. Ma non oltre il portone di bronzo.

Sono tutti lì, stesi uno accanto all’altro. Praticamente il gruppo umano più numeroso che ho incontrato durante tutta la notte.

Allungo il passo e arrivo a Trastevere. Sono le 3 del mattino e comincio ad essere stanco dopo 5 ore a camminare ininterrottamente. Ma non voglio interrompere anzitempo il percorso che mi ero proposto di fare.

Il silenzio e la solitudine mi danno l’adrenalina necessaria per continuare.

Da Via della Lungaretta arrivo a Piazza Santa Maria in Trastevere. I colori magnifici di quella piazza e la fantastica illuminazione della Chiesa si mescolano con il silenzio assoluto.

Non fosse stato per uno stupido monopattino abbandonato al centro della piazza (e per l’illuminazione elettrica) avrei potuto pensare di essere precipitato in un’altra epoca storica. Ho bighellonato per il più antico quartiere di Roma per tre quarti d’ora.
Non incrociando alcuno, a parte i gabbiani.

È il momento in cui cominci anche a valutare i rischi di quella situazione e riflettere sul fatto che in fondo la presenza umana rassicura, protegge, conforta.

È ora di tornare a casa. Ma prima voglio uscire dal centro e andare verso l’Eur. Vorrei vedere, il più metafisico dei quartieri romani.

Osservare, in questa notte, come lo spazio e il silenzio si fondono, in un contesto che di suo già li accoglie.
Non rimarrò deluso.

Alla fine di una rapidissima Via Cristoforo Colombo, l’obelisco di Guglielmo Marconi sembra galleggiare tra i palazzi e gli ampi viali realizzati negli anni 30, frutto del razionalismo architettonico di quell’epoca.

Verso il ritorno, incrocio ancora un posto di blocco, ma non mi ferma nessuno.

Sulla via di casa, passo davanti al Colosseo. Lo fotografo come probabilmente non mi capiterà più tanto spesso di farlo. Ma soprattutto lo osservo.

E penso che il simbolo di questa città è stato testimone di ben altre tragedie. Passerà anche questa.

Intanto, mi ritorna in mente l’unico rumore che, ho poi realizzato, mi ha accompagnato per tutta la notte.
Quello dei miei passi sul selciato.

Di tanto in tanto, inframezzato dal garrito dei gabbiani.

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